The Midnight Club (stagione 1): la recensione

Non basta la scelta di un argomento spinoso a salvare The Midnight Club dall'abisso di una banalità melensa e ricattatoria

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Ecco la nostra recensione della prima stagione di The Midnight Club, la nuova serie ideata da Mike Flanagan e Leah Fong disponibile su Netflix

In un'intervista risalente al 2015, Dario Fo sottolineava: "Il pubblico di oggi è drogato di banalità." Sono passati sette anni ma, di fronte a un prodotto come la prima stagione di The Midnight Club, non possiamo che immaginare che incontrerà il gusto di una buona fetta di pubblico. Laddove non arrivi la fama di Mike Flanagan, celebrato autore di Hill House, Bly Manor e Midnight Mass, arriverà la dolente cornice farcita di tensione di bassa lega.

La trama, desunta dall'omonimo romanzo di Christopher Pike, è ricattatoriamente struggente; otto ragazzi, tutti malati terminali, affrontano gli ultimi mesi della propria vita in una lussuosa struttura nel mezzo della natura. Mentre l'ombra della morte allunga i propri artigli sul loro breve futuro, i giovani si riuniscono notte dopo notte istituendo una sorta di bizzarro club. Si ritrovano in una sala comune, dinnanzi al fuoco, per raccontarsi storie dell'orrore, quasi a esorcizzare così il terrore per la propria fine.

Melodramma raffermo

In questo Decamerone anni '90, seguiamo la protagonista Ilonka (Iman Benson) e i suoi compagni di sventura elaborare, episodio dopo episodio, nuove storie per scuotersi dal torpore; espediente necessario alla serie per spalmare su dieci puntate una vicenda fin troppo scarna e priva di reali emozioni. Certo, siamo lontani anni luce dal terrore delle altre opere di Flanagan, i toni qui sono consapevolmente intimisti e teen; eppure, non c'è pathos, non c'è guizzo nei dialoghi saturi di melassa con cui The Midnight Club elemosina le nostre lacrime.

Persino i colpi di scena, solitamente ben orchestrati dal cineasta statunitense, sono qui scontati e stantii, intuibili sin dai primi snodi narrativi. Ciò che però sconcerta è la ridondanza, l'assenza totale di buon gusto e - peggio - di verosimiglianza nella trattazione di un argomento spinoso come la malattia terminale. Tutto è coperto di una patina zuccherosa e fasulla, in un manierismo del tutto inadeguato alla gravità delle situazioni che la storia si propone di descrivere. Tra lo spettatore e la protagonista si crea un muro invalicabile, che rende impossibile qualsiasi tentativo di reale immedesimazione. Finiamo per tenere così poco a questi protagonisti da vergognarci quando una lacrima stenta a scendere, forzata da musica e battute a effetto trasudanti retorica.

Una facciata sottile

In questo mare magnum di ovvietà e sentimentalismo a buon mercato, qualcosa emerge; rare scintille di verità, veicolate da alcune vibranti interpretazioni (Ruth Codd su tutti, autentica scoperta di questa serie). Di per sé, il cast di The Midnight Club appare ben assortito, variopinto e sfaccettato nell'assemblare un coro di giovanissimi condannati a morte. C'è solo un dettaglio che affossa inesorabilmente il gruppo di protagonisti: una drammatica carenza di carisma. Duole dirlo, ma non siamo davanti alla furbizia di una Stranger Things; a fronte di una scrittura ripetitiva e di soluzioni visive scandalosamente derivative, ci sarebbero voluti dei giganti attoriali per riscattare The Midnight Club.

A nulla valgono i parallelismi tra le storie raccontate dai ragazzi e la loro reale situazione di quasi-fantasmi, costretti a riflettere continuamente su improbabili what if. L'attenzione dello spettatore si disperde nei - pur pochi - rivoli di una trama avara di brividi e, ahinoi, di vera profondità. Ciò che resta è una facciata stucchevole, confezionata col minimo sforzo (la scenografia svela fin troppo spesso dettagli dozzinali che crepano la sospensione dell'incredulità). Ma a noi, come a Ilonka e ai suoi amici, piace tanto sperare: davanti al finale sciattamente aperto di questa stagione, confidiamo in un prosieguo più raffinato e consapevole.

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