The Lost City, la recensione

Partendo da un'idea classica di avventura, ma scambiando i ruoli The Lost City fa satira sui sessi mentre ne afferma nuovi equilibri

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di The Lost City, in uscita il 21 aprile

Sembra che siano state strappate delle pagine dalla sceneggiatura di The Lost City o che sia un adattamento maldestro di un romanzo più ampio in cui sono spiegati meglio i contesti e i personaggi. Invece no. Le pagine di sceneggiatura ci sono tutte e il film è originale. Lo stesso tra la scrittrice di romanzi d’avventura rosa che deve presentare il nuovo libro e il modello che posa per le sue copertine non capiamo bene che relazione ci sia né capiamo cosa implicano i trascorsi che evidentemente esistono o ancora come mai un modello di copertina sia così noto. Ma del resto non è chiaro nemmeno perché questa scrittrice di romanzi, che capiamo essere più colta del materiale leggero che produce, addirittura sappia leggere i geroglifici. Dove l’ha imparato? Intuiamo vagamente di essere in un territorio da Dan Brown, cioè che la protagonista dei suoi romanzi sia un’esperta ma come questo faccia anche di lei un’esperta (una reale!) non è chiaro.

Domande forse superflue per una commedia che rivede i presupposti dell’archetipo fondato da Alla ricerca della pietra verde, cercando di mettere in questione i ruoli e le posizioni tra sessi invece di confermarle e rilanciarle. La romanziera sofisticata e il modello scemo infatti saranno catapultati su un’isola esotica da un miliardario alla ricerca di artefatti antichi, convinto che lei possa aiutarlo. A cercare di salvarli una publicist e una social media manager (spunto obiettivamente divertente) e anche un avventuriero reale, serio e letale (Brad Pitt) monumento al tipo di virilità cui aspira invece il protagonista (e che il film non esita a prendere in giro), senza esserne all’altezza. Metafora quasi metacinematografica di una carriera che Channing Tatum non ha mai fatto.

La vera battaglia di The Lost City quindi non è quella contro il perfido (??) Daniel Radcliffe per la scoperta di una città perduta, ma quella che Channing Tatum combatte per incarnare un modello maschile diverso. Il film avrà modo di fare fuori l’eroe classico e sostituirlo con quello nuovo, per nulla immacolato, per nulla abile, per nulla superiore in niente, la negazione del super-uomo ma anzi quasi una palla al piede per la damigella da salvare (Sandra Bullock in un ruolo in cui non eccelle ma che se non altro le calza bene) che farà di tutto per salvarsi da sé e magari trovare in lui il proprio piacere. Tatum è infatti chiamato ad occupare esattamente la casella che una volta spettava alla spalla femminile, è un corpo a cui viene chiesto come prima cosa di esibire se stesso, capace più che altro di farsi prendere dai cattivi, ma perfetto per funzionare come macchina dell’attrazione per il pubblico e per la protagonista. Secondariamente dovrà dimostrare di poter offrire più che la propria prestanza, ma è il desiderio la sua ragione per stare in un film che adotta lo sguardo femminile nonostante sia diretto dai fratelli Nee.

Tutto considerato e nonostante le difficoltà di sceneggiatura The Lost City partirebbe anche bene, con il piede giusto e un bel ritmo, buone gag e una regia misurata. Tutto però non tiene più di metà durata. Nella seconda parte le gag si fanno ripetitive, la trama stalla e nessuno nel cast ha il carisma sufficiente a mantenere vivo un film che paga lo scotto di non poter vantare nei ruoli protagonisti una vera star (i pochi minuti di Brad Pitt spiegano bene la differenza in termini di capacità di interessare). Arriveremo a fatica ad un finale sul quale invece occorreva planare con grazia.

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