The Leftovers (prima stagione): la recensione
The Leftovers, la serie HBO di Lindelof, è una delle sorprese dell'estate
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il coraggio di cambiare quelle che posso,
e la saggezza di comprendere la differenza.
La prima stagione di The Leftovers è tutta qui, nella celebre Preghiera della serenità che non viene mai esplicitamente citata, ma che sempre cammina silenziosa accanto alla storia e ai protagonisti. C'è questa invocazione al cielo, a volte rabbiosa, a volte disperata, a volte inconsapevole, che è la vera costante di una storia senza storia, di una vicenda senza sbocchi e senza risposte. È il ribaltamento della prospettiva sul Giudizio Universale, l'affresco che viene omaggiato nella splendida intro, e il racconto di chi si allontana dalla luce e dalla ricerca delle risposte per rimanere all'ombra delle domande, quelle di sempre. Dopo un inizio stentato, il progetto di Damon Lindelof tratto dal romanzo di Tom Perrotta ha trovato equilibrio e identità, costruendo una delle migliori proposte dell'estate.
Tutto cambia con Two Boats and an Helicopter. Il terzo episodio, interamente dedicato alla figura del reverendo Jamison (Christopher Eccleston), è la parentesi tragica di un uomo all'interno di quella più universale raccontata. Non sarà l'unica puntata monografica della stagione (seguirà Guest, dedicato a Nora Durst), ma in nessun altro caso si costruirà qualcosa di così forte, angosciante e maturo nel presentare i contorni sfumati delle motivazioni degli eventi. Da questo momento in avanti lo sguardo critico sulla serie si rinnova. Esistono queste tre forze nella storia di The Leftovers: il caso, il destino e la volontà divina, e la vera sfida nella sfida consiste di volta in volta nel decidere quale di queste domina la scena. Decidere, non capire. Perché, anche in questo come per la sparizione mondiale, semplicemente non esistono risposte al di fuori di quelle personali.
Quello che la scrittura ha spesso fatto in questi dieci episodi è stato metterci di fronte alla rappresentazione simbolica di un trauma concreto. Se Tony Soprano poteva confrontarsi, e rispecchiarsi, in alcune anatre o in un orso nel giardino, qui è Kevin (Justin Theroux) a diventare, simbolicamente, il cervo da cacciare. E naturalmente riferimenti biblici a non finire: dal Rapimento della Chiesa, da cui il collegamento con il Giudizio Universale della sigla, al martirio di quei penitenti che sono i Guilty Remnants, all'intensa lettura di un passo dal libro di Giobbe nell'ultimo episodio, e molti altri.
Ciò che si può imputare al progetto è il fatto di metterci di fronte ad un evento così impossibile da rendere difficile l'immedesimazione. Se le motivazioni di Laurie Garvey diventeranno più chiare nel penultimo episodio (la curiosa e coraggiosa scelta di farne un flashback sul giorno X) ed entreremo meglio nel merito del percorso autodistruttivo di Nora, al tempo stesso sarà un dolore comunque riflesso e non del tutto accessibile per noi, anche se ben raccontato. Come davvero difficile sarà comprendere le azioni e lo stile di vita dei Guilty Remnants. Anche in questo caso, è facile imbastire qualche riflessione sulle emozioni che potrebbero averli spinti, ma alla fine la visione migliore sarà quella che ognuno vorrà dare a ciò che ha visto.
Come Wayne Henry Gilchrest (Paterson Joseph), il misterioso personaggio che assorbe il dolore del prossimo. La sua storyline è la più debole di tutte, anche perché si accompagna a quella di Tom Garvey (Chris Zylka), il personaggio più incolore dello show, ma anche qui la serie riesce a instillare il dubbio. Esiste davvero qualcosa di sovrannaturale in quello che abbiamo visto, o è solo autosuggestione? Infine coincidenze, blackout nelle storie, momenti incredibilmente determinanti semplicemente non spiegati – come nel caso proprio della conclusione della storia del santone – ci vengono mostrati in un season finale, intitolato The Prodigal Son Returns, che basta a se stesso e che non avrebbe nemmeno bisogno di una prosecuzione. Sugli ultimi, intensi 20 minuti, a partire dal ritorno in macchina a Mapleton di Kevin (uno dei molti "figliol prodigo" del titolo dell'episodio che tornano a casa), non si può dir nulla se non: eccezionali.
Il ritrovato equilibrio nella serie ha lasciato emergere tutte quelle qualità tecniche rimaste fino a quel momento in secondo piano. È stata splendida la regia di Mimi Leder, che ha diretto tre episodi, compreso l'ultimo, ma anche la messa in scena, il lavoro delle musiche (solo nel season finale ascoltiamo una cover di Nothing Else Matters), buona parte del cast (Amy Brenneman su tutti). The Leftovers è una serie in cui non dare risposte non significa solo, banalmente, non rivelare perché il 2% della popolazione è scomparso, ma anche astenersi da qualunque giudizio morale sulla condotta di chi soffre e di chi fa soffrire, di chi ricorda e di chi vuole dimenticare, di chi entra nel mondo e di chi se ne allontana. Quello che fa è lanciarci in faccia una scarica di eventi e reazioni, anche incoerenti, grottesche, indecifrabili, ma forti. Non era una scelta facile, né così scontata come potrebbe sembrare.