The Last Of Us: le nostre prime impressioni sulla serie

Quella cosa molto rara che è guardare una prima volta la si prova davanti a The Last Of Us, il racconto classico americano in una nuova veste

Critico e giornalista cinematografico


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Seguiremo The Last Of Us recensendo un episodio a settimana a partire dalla prima messa in onda il 16 gennaio su Sky e in streaming su NOW in contemporanea con HBO. Oggi vi riportiamo le prime impressioni su tutta la stagione

È la prima volta che un videogioco così complesso sia narrativamente che visivamente viene adattato con una produzione così grande e con così tanta attenzione alla fedeltà. 

La storia degli adattamenti dai videogiochi è costellata di necessari tradimenti perché storicamente la componente narrativa era così diversa da quella del cinema o della televisione da aver bisogno di diversi aggiustamenti per funzionare. Costruire qualcosa di altro (solitamente abbastanza banale e vicino alle solite storie dei soliti generi) prendendo il brand, il personaggio o l’ambientazione del gioco. The Last Of Us è il primo titolo il cui adattamento può rispettare la storia e soprattutto il tono narrativo originali, e di conseguenza è la prima serie con un approccio complicato, creativo e laborioso all’adattamento dal videogioco di riferimento.

Impossibile non partire da quest’assunto nel parlare della serie, la prima della sua categoria nonostante esistano precedenti anche nel mondo seriale (si pensi aThe Witcher oCyberpunk: Edgerunners) che sembra conscia del peso di battere un percorso nuovo con tutto l’obbligo di farlo a dovere.Craig Mazin (creatore di Chernobyl) ha lavorato conNeil Druckmann (designer e sceneggiatore del videogame) per creare una serie che restituisca lo spirito e le sensazioni di quel gioco e invece di farlo solo attraverso la trama hanno scelto di lavorare pornograficamente sulla messa in scena, cioè sugli ambienti, sulle immagini, i toni dei colori e le scenografie, i rumori (cruciali nel gioco) e i capelli, gli abiti e poi ancora i dialoghi. L’impatto con il mondo di The Last Of Us (la serie) è sorprendentemente lo stesso sperimentabile giocando. In questo sta il segreto dell’ottima resa di una storia classica che già il videogioco rubava ai fondamentali del cinema.

A tutti gli spettatori che non hanno giocato a The Last Of Us (la maggioranza) la serie racconta quindi qualcosa di noto con un look e una personalità visive molto forti, la stessa storia di tanti altri film e serie tv che da subito però si presenta diversamente. Non c’è nulla di apparentemente originale se non una capacità di andare in profondità non comune e un’attenzione ai personaggi rara. Stavolta la controriforma, cioè il ritorno forte alle radici della narrazione, viene imposta alla serialità dal mondo dei videogiochi. È la classica storia post-apocalittica con zombie particolari (non escono dalle tombe, non sono contagiati da un virus ma da un fungo, cosa dalla quale non esiste cura) in cui, lo scopriamo nel primo episodio, dopo 20 anni di un mondo distrutto un uomo scopre che una bambina è immune al morso. In lei c’è il segreto della sopravvivenza e deve scortarla, in gran segreto, attraverso gli Stati Uniti (a piedi!), da qualcuno che potrà studiarla e magari salvare il mondo. Tutto lungo un anno scandito dalle 4 stagioni.

Per quanto The Last Of Us sia una serie molto buona ma lontana dall'essere perfetta e non a livello delle gigantesche grandi narrazioni americane dell'era d'oro della serialità (troppo meccanica l'alternanza di fasi d'azione e di dialogo, spesso goffo nel voler a tutti i costi dimostrare il proprio statuto di racconto sofisticato e molto innamorato della sua intensità), lo stesso dentro c’è tutto quello che compone il racconto classico americano: le terre selvagge della frontiera in cui girare armati, l’assenza della legge che rende necessario il ricorso ad un codice e un’etica personali la cui tenuta morale definisce i personaggi, i grandi spazi, l’attraversamento in orizzontale della nazione e poi la famiglia come nucleo fondante di tutto. L’uomo e la bambina non sono parenti, ma lui ha perso una figlia della stessa età nel caos dello scoppio del contagio, mentre lei non ha più i genitori, in quel viaggio sviluppano un rapporto di cui entrambi hanno bisogno. È Sentieri selvaggi al contrario, non c’è nessuna ragazza da trovare, ma anzi un viaggio alla ricerca di un domani migliore assieme a quella ragazza (perduta e metaforicamente ritrovata in un’altra) contro gli “altri” che si trovano nelle terre selvagge. In questo senso The Last Of Us contiene in sé lo spirito americano per definizione, il racconto dell’identità nazionale (e della sua conquista tramite fatica, violenza ed etica) attraverso uno scenario spettacolare. Che poi nel retro della testa di tutti ci sia la pandemia (evento occorso dopo il videogioco e prima della serie) è un bonus che incombe già dalle prime scene della prima puntata (create per la serie e non provenienti dal gioco).

In questa versione seriale quindi le radici western sono ancora più evidenti, complice Pedro Pascal (già bounty hunter in un altro cripto-western, The Mandalorian) che non calca troppo il Joel originale ma gli dà una durezza tutta sua e superiore all’originale (e fa bene), e complice Bella Ramsay, vera scoperta (almeno per chi non la ricordava come Lyanna Mormont in Il trono di spade), bambina perfetta nei due toni, sia il giocoso che il fastidioso, ed eccezionale nel muoversi tra questi. È su loro due e su una serie di comprimari eccezionali (il migliore forse è Nick Offerman, finalmente lontano dai suoi soliti ruoli) che si misura il lavoro autonomo della serie tv. La recitazione nei videogiochi non è proprio la parte migliore, qui invece, mancando l’interazione, diventa il cuore di tutto. La risposta ai problemi di traduzione di molti meccanismi infatti sono sempre gli attori. Tutto si concentra su di loro, tutto è risolto, è pensato, è messo in scena per attendere la loro reazione o per guardare come lo vivono. È un’aggiunta e non un cambiamento: è quello che mancava. Nonostante tutta l’azione infatti, questa palesemente non è una serie d’azione ma una serie di personaggi in cui guardare ossessivamente il lento cambiamento di due persone lungo il cambio di scenari (e quello fondamentale di stagioni!). 

Così, dopo un primo episodio pensato per rassicurare i fan in cui addirittura la regia della serie ricalca la regia del prologo videoludico (una vera operazione di genuflessione), il resto della stagione cerca sempre di allargare la trama. Se da un libro occorre sempre operare una riduzione, scopriamo qui che da un videogioco adattato con cura occorre allargare. La storia è piena di piccole digressioni, variazioni, assoli o interi segmenti che completano quello che nel gioco era accennato (e sviluppano la personalità di Mazin, i suoi interessi, le sue ossessioni). Molto viene risolto, nulla viene rovinato. Anzi. Ogni piccolo spunto e indizio del gioco è allargato in scene e storie gustose, come se HBO avesse deciso di esplorare tutte le missioni opzionali che nel gioco non ci sono e farcele vedere. Non c’è mai quell’impressione meccanica di guardare un succedersi di schemi o obiettivi a conquistare, anzi complice la dinamica del road movie, è tutto molto naturale.

Quando uscì The Last Of Us erano gli anni di The Walking Dead e per molti versi sembrò che quell’idea di un post-apocalittico con zombie nel quale la parte più pericolosa erano gli altri uomini, fosse in comune tra i due racconti. Ora che arriva la serie di The Last Of Us, è evidente quanto quella trovata fosse sviluppata molto meglio nella storia di Joel ed Ellie. Ed è altrettanto evidente che da domani sarà più difficile accettare adattamenti da videogiochi meno minuziosi e sensati di questo.

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