The Land of Dreams, la recensione
Musical italiano come il più classico dei musical hollywoodiani, The Land of Dreams manca di originalità e finisce per non funzionare
La nostra recensione di The Land of Dreams, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2022 e al cinema dal 10 novembre
Il musical italiano diretto da Nicola Abbatangelo si pone come una riproposizione pedissequa del musical hollywoodiano più classico, nella forma (a prevalere sono i dialoghi, le parti cantate sono solo intermezzi) e nella storia. C’è una giovane ragazza, Eva, che lava i piatti in un night club e proviene da una famiglia povera che fatica a procurarsi da mangiare. Il suo desiderio è diventare una cantante, ma la situazione in cui si trova all'inizio è completamente diversa. Un boss mafioso con ambizioni politiche, che scoperta la sua dote decide di sfruttarla per i propri fini. C’è il vero amore della protagonista, Armie, un ragazzo segnato dal passato (è stato al fronte durante la Prima Guerra Mondiale) con un "potere" ma anche qualche mistero (facilmente intuibile). Al centro dunque, il sogno: dell’America di chi scappa dall’Italia perché non ha più nulla, della carriera nel campo musicale della protagonista, di Armie, capace di far letteralmente vivere i sogni. Aspetto su cui magari imbastire un discorso di secondo grado, vedendolo come un simbolo del cinema stesso, macchina onirica per gli spettatori in sala: questo arriviamo a pensare mentre assistiamo ad una storia che non coinvolge, ma poi capiamo che non tutto è inutile, perché anche costruendoci sopra improbabili cattedrali interpretative ci rimarrebbe in mano niente.
La trama infatti tocca vette di implausibilità incredibile, come quando la protagonista prima scappa dal palco perché intenzionata a riportare con sé Armie, e poi quando torna riprende la performance senza che nessuno batta ciglio. Anche il parco attoriale è veramente ai minimi: tanto la coppia di protagonisti (Katsiaryna Shulha e George Blagden), la cui relazione, più che guardare ai modelli alti, sembra guardare alla soap, tanto quella di villain (Paolo Calabresi e Edoardo Pesce) che costretti a recitare in inglese e a figure macchiettistiche sprecano il loro talento. Impossibile appassionarci a loro, e nemmeno a farci travolge dalle coreografie, dove tutti sembrano impalati muovendosi il minimo sindacale (e che beffarda promessa non mantenuta quel piano sequenza iniziale in una scena dallo sfarzo luhrmanniano!). Credere nei propri sogni è dunque la morale del film? No, è l’idea che promuovere film italiani che battano nuove strade può andare a scapito e non a vantaggio della nostra industria, se i risultati sono questi.