The Land of Dreams, la recensione

Musical italiano come il più classico dei musical hollywoodiani, The Land of Dreams manca di originalità e finisce per non funzionare

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La nostra recensione di The Land of Dreams, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2022 e al cinema dal 10 novembre

Quando parlano, gli attori di The Land of Dreams ricorrono a un inglese meccanico, scandendo bene le parole e dando grande enfasi. Non afferiamo subito il perché, ma poi i personaggi ci vengono presentati come italiani immigrati nella New York degli anni ’20 e intuiamo che la scelta vorrebbe dare una patina di pseudo-realismo al racconto. Ma perché allora non ricorrere all’italo americano? Insomma, capiamo subito come il film metta in campo una notevole ingenuità che richiederebbe una certa sospensione dell’incredulità per poterlo apprezzare, ma il modo così smaccatamente artificioso in cui tutto è realizzato la rende assolutamente impossibile.

Il musical italiano diretto da Nicola Abbatangelo si pone come una riproposizione pedissequa del musical hollywoodiano più classico, nella forma (a prevalere sono i dialoghi, le parti cantate sono solo intermezzi) e nella storia. C’è una giovane ragazza, Eva, che lava i piatti in un night club e proviene da una famiglia povera che fatica a procurarsi da mangiare. Il suo desiderio è diventare una cantante, ma la situazione in cui si trova all'inizio è completamente diversa. Un boss mafioso con ambizioni politiche, che scoperta la sua dote decide di sfruttarla per i propri fini. C’è il vero amore della protagonista, Armie, un ragazzo segnato dal passato (è stato al fronte durante la Prima Guerra Mondiale) con un "potere" ma anche qualche mistero (facilmente intuibile). Al centro dunque, il sogno: dell’America di chi scappa dall’Italia perché non ha più nulla, della carriera nel campo musicale della protagonista, di Armie, capace di far letteralmente vivere i sogni. Aspetto su cui magari imbastire un discorso di secondo grado, vedendolo come un simbolo del cinema stesso, macchina onirica per gli spettatori in sala: questo arriviamo a pensare mentre assistiamo ad una storia che non coinvolge, ma poi capiamo che non tutto è inutile, perché anche costruendoci sopra improbabili cattedrali interpretative ci rimarrebbe in mano niente.

Abbatangelo lavora infatti sull’atmosfera più irrealistica possibile, tra sfondi cartonati, fotografia dai colori accessi, anche sullo stesso immaginario di un'epoca (la ricostruzione della celebre foto del pranzo degli operai sul grattacielo). Il background storico dell'intreccio (l'immigrazione, la povertà in una New York alle soglie della modernità) resta però mero sfondo perché tutto confluisce nei toni favolistici e a una visione cupa della realtà si sostituisce presto una luminosissima. Il mondo raffigurato è fatto di emozioni semplici ed esasperate, veicolate da esclamazioni come "I sogni sono un’illusione" (quando è chiaro che sarà il contrario) a "Non abbiamo niente da mangiare", di personaggi candidi e ingenui che si scontrano con altri incarnazione del male. La consapevolezza di proporre con sincerità una confezione non originale avrebbe potuto anche creare una rasserenante e rassicurante comfort zone, in un livello accettabile di produzione. Esatto, avrebbe potuto.

La trama infatti tocca vette di implausibilità incredibile, come quando la protagonista prima scappa dal palco perché intenzionata a riportare con sé Armie, e poi quando torna riprende la performance senza che nessuno batta ciglio. Anche il parco attoriale è veramente ai minimi: tanto la coppia di protagonisti (Katsiaryna Shulha e George Blagden), la cui relazione, più che guardare ai modelli alti, sembra guardare alla soap, tanto quella di villain (Paolo Calabresi e Edoardo Pesce) che costretti a recitare in inglese e a figure macchiettistiche sprecano il loro talento. Impossibile appassionarci a loro, e nemmeno a farci travolge dalle coreografie, dove tutti sembrano impalati muovendosi il minimo sindacale (e che beffarda promessa non mantenuta quel piano sequenza iniziale in una scena dallo sfarzo luhrmanniano!). Credere nei propri sogni è dunque la morale del film? No, è l’idea che promuovere film italiani che battano nuove strade può andare a scapito e non a vantaggio della nostra industria, se i risultati sono questi.

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