La recensione di The Kitchen, il film uscito su Netflix il 18 gennaio co-diretto da Daniel Kaluuya
Per il suo esordio alla regia
Daniel Kaluuya (protagonista di
Get Out, premio Oscar per
Judas and the Black Messiah e protagonista di
Nope) si è affiancato a
Kibwe Tavares, regista di corti di fantascienza britannico dalla personalità così spiccata che, guardando il prodotto finito, viene da pensare che sia stato
Tavares a trovare in
Kaluuya una spalla per un suo progetto.
The Kitchen è fantascienza umanista inglese, in cui in una Londra del futuro padre e figlio si cercano. Il primo lavora in un obitorio distopico nel quale i cadaveri sono trasformati in piante, il secondo ci finisce quando la madre muore, i due si incontrano e per una coincidenza capiscono di essere padre e figlio senza dirselo.
È tutto un gioco di attrazione e repulsione, questi due uomini sanno di essere legati da qualcosa e da quando si incontrano faticano a non stare più insieme mentre il ragazzo, rimasto solo, sembra incline a cadere preda delle gang criminali. Entrambi per ragioni diverse non vogliono confessare la verità che hanno ormai compreso, non vogliono effettivamente vivere insieme e stringere un reale rapporto, ma non vogliono nemmeno non farlo. Tutto The Kitchen si gioca in questo territorio ambiguo nel quale desideri contrastanti, uniti a paure, incertezze e mutismi, rendono da una parte un rapporto impossibile e dall’altra, lentamente, ne creano uno nuovo. Tutto in attesa che qualcuno dichiari quello che entrambi hanno capito.
Purtroppo il film è molto peggio che sulla carta.
The Kitchen non sa sfruttare il suo setting di fantascienza per il quale sembra aver speso non poco, ma che di fatto non serve a nulla. Questa storia di padre/figlio poteva avvenire anche nel presente e non diventa mai qualcosa di emotivamente impegnativo per lo spettatore, rimane sempre sul filo della velleità.
The Kitchen vorrebbe molto essere un film intenso, ha studiato i film intensi ed è convinto di star trattenendo emozioni potentissime, intanto però nulla accade né fuori né dentro ai personaggi, il cui contrasto iniziale rimane tale a oltranza. Ci vorrebbe una reale tensione da percepire ma non c’è, cosa per la quale sono imputabili non poco gli attori, che è grave in un film co-diretto da un attore. Sia
Kano che
Rasaw Kukoyi sono incapaci di creare quell’elettricità che darebbe al film almeno un’anima. Non hanno una presenza, non creano chimica tra loro, non caratterizzano davvero i loro personaggi. Incolori in un mondo banale, i due non si parlano nel più classico dei blandi film da piattaforma. La versione amatoriale del cinema d’autore.