The Killing (quarta stagione): la recensione

Il commento alla quarta e ultima stagione di The Killing: la storia di Linden e Holder si conclude su Netflix

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Si chiude infine, in quello che assume i contorni di un epilogo lungo sei episodi, la plumbea parentesi televisiva di The Killing, e con essa la ricerca personale dell'Eden da parte dell'agente Sarah Linden, tema di cui è impregnata questa quarta stagione. Per due volte morto e per due volte risorto, il remake del danese Forbrydelsen trova il proprio climax narrativo e la dovuta conclusione di serie muovendosi dalla AMC a Netflix, che come di consueto ha rilasciato l'intera stagione in un unico blocco (e con episodi lunghi un'ora). Il cambio di network non intacca tuttavia l'estetica e il mood della serie, che anche in  quest'ultimo, tragico atto, si presenta al pubblico con la sua veste più oscura e pessimista. La piovosa Seattle è ancora una volta la cappa oscura che, come una madre crudele e possessiva, avvolge i suoi figli, introducendoci indirettamente al tema centrale della stagione: il rapporto genitori-figli. Con una quarta stagione da promuovere, si chiude per sempre la storia di The Killing.

Acqua che scivola sul viso, ancora una volta, ma non è la pioggia che abbiamo imparato a conoscere. Una doccia, acqua che scorre, sangue, forse lacrime. La serie riprende esattamente dove l'avevamo lasciata, con Linden (Mireille Enos) e Holder (Joel Kinnaman) a fare i conti con l'omicidio a sangue freddo di Skinner, che nell'ultimo season finale si era scoperto essere il killer delle giovani donne denominato Pifferaio Magico. Quell'inquadratura finale sospesa sul volto devastato della protagonista era stata una pugnalata allo stomaco, e la lama era scivolata ancora più in profondità dopo aver appreso della cancellazione della serie. Al di là del risultato raggiunto dalla stagione, un vero finale era dovuto, e siamo contenti di aver avuto l'occasione di conoscere il seguito della storia.

La stagione, ancora una volta curata da Veena Sud, che ha anche firmato la scrittura del primo e dell'ultimo episodio, si muove quindi lungo le due direttrici del caso stagionale e delle vicende personali dei protagonisti. La gestione della scomparsa di Skinner non viene liquidata in fretta, ma anzi è la spada di Damocle che pende costantemente sulla testa dei due detective, e che ad ogni secondo minaccia sempre più di precipitargli addosso. Giocando in attacco sul versante della propria indagine e in difesa su quello che li riguarda da vicino, i due protagonisti vedranno sempre più stringere il cerchio su loro stessi, metteranno alla prova il loro rapporto, saranno costretti a dure scelte. E non si tratta nemmeno di un gioco al depistaggio (ad esempio sul modello dell'ultima stagione di Breaking Bad), né i pochi episodi né la caratterizzazione dei personaggi lo permettono. Perché gli imperfetti Linden e Holder sono stati pur sempre delle figure umane, in cui il senso di colpa, il peso delle azioni e la coscienza ci mettono poco a far breccia.

E poi il caso stagionale, quello di una benestante famiglia che viene completamente sterminata, e in cui solo figlio maggiore viene ritrovato con una tremenda ferita alla testa e una pistola in mano. Si è trattato, come sembrerebbe, di un omicidio-tentato suicidio, o c'è qualcosa di più nascosto? Una pistola mancante, l'apparente sincerità del ragazzo di nome Kyle (Tyler Ross), che non ricorda nulla di quella sera, i segreti in cui la famiglia sembrava affogare: da qui partono le indagini, che presto si concentrano nell'ambiente di un'accademia militare nella periferia della città. E qui nuovi personaggi, come i compagni di Kyle, Lincoln Knopf (Sterling Beaumon) e AJ Fielding (Levi Meaden), e come la sovrintendente dell'accademia, il colonnello Margaret Rayne (Joan Allen).

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La quarta stagione di The Killing è una piccola parentesi, forse non memorabile, ma dovuta, per concludere questa bella storia televisiva che, da remake, è riuscita a ritagliarsi un proprio posto, a sopravvivere e a raggiungere una sua identità. I due interpreti principali si confermano una certezza dello show, e la presenza di Joan Allen è un valore aggiunto non da poco al cast. Per il resto una Seattle sempre cupa e affascinante, ripresa con la solita eleganza e con una regia che vede intervenire nel suo ultimo atto anche il regista premio Oscar Jonathan Demme.

Dopo una necessaria parentesi di riallacciamento con il finale della terza annata, la stagione corre veloce verso il season finale. Talmente veloce che i contorni del traguardo, seppur sbiaditi, ci appaiono fin dal primo episodio. Una volta inquadrati i temi centrali della stagione, prestando attenzione ad alcune puntuali frecciate della scrittura, e lavorando con semplice logica su strutture narrative ormai collaudate, non dovrebbe essere difficile carpire fin da subito un elemento chiave della storia. Sostenuto, ma anche intrappolato, dai pochi episodi a disposizione, The Killing taglia praticamente tutti i rami morti della vicenda, quelli sui quali invece si era mosso soprattutto nella sua prima stagione, causando anche la rabbia di quanti all'epoca desideravano veder svelato l'assassino di Rosie Larsen nel season finale. Quasi tutto ciò che rimane è indispensabile.

D'altra parte in The Killing la scoperta della verità sul caso, per quanto importante, non è l'unico motivo di interesse. Non si spiegherebbe altrimenti il dispiacere di fronte al finale tronco dello scorso anno, e la necessità di dare una conclusione alla storia. Dopo tante puntate, la storia è diventata anche la cronaca del particolare rapporto tra i due protagonisti, a metà tra la distanza che la professionalità imporrebbe e l'amicizia e solidarietà che sorgono in condizioni limite. Ed è qui, nell'ultima parentesi della storia, che il rapporto genitoriale emerge come centrale. Quindi percorso di maturità dei protagonisti, presa di coscienza del forte impatto che le mancanze dei genitori hanno avuto sulla loro personalità. Linden teme di diventare come sua madre, che puntualmente tornerà nella storia, e Holder, che presto diventerà padre, teme di comportarsi come il suo. Forse inconsapevolmente è stato sempre questo elemento a legarli e ad avvicinarli, loro che erano quasi inavvicinabili per tutti gli altri.

E da questo anche il rapporto tra i due, con una Linden più matura – materna? – nelle prime due stagioni, che invece ha lasciato il passo alla guida del suo collega più giovane, molto più cresciuto rispetto agli esordi. Questo è The Killing nel suo ultimo anno: di genitori che si scoprono figli, e di figli che diventano genitori. E il modo in cui tutto questo e il tema della famiglia trovano conferma nel caso stagionale è solo l'ultimo pezzo di un mosaico evidente fin dal principio. E poi c'è la ricerca dell'Eden che dicevamo al principio, e che non è casuale come riferimento. La storia ce lo dice, anche qui fin da subito, con un dialogo nel primo episodio in cui l'Eden, che tra l'altro dà anche il titolo al series finale, simboleggia una casa da ritrovare: il bisogno di combattere il senso di non appartenenza. E l'Eden, sempre nel finale, finisce per coincidere in modo fin troppo evidente con Seattle, luogo di morte, di sofferenza, ma dove forse c'è anche qualcos'altro. Alla fine, forse in modo un po' fuori luogo e sdolcinato dopo tanto pessimismo, è l'arcobaleno che arriva dopo tutta la pioggia delle quattro stagioni.

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