The Killing: la recensione della terza stagione

Torna la pioggia su Seattle: nonostante un finale deludente, The Killing costruisce una stagione grandiosa

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Il caldo torrido dell'estate si scontra con un'ondata di gelo proveniente da Seattle. La pioggia torna a cadere fitta sulle vite degli sconfitti che si trascinano sotto la cortina delle nuvole alla ricerca di un vago senso di giustizia che possa portare un pò di luce nel buio paesaggio. Una ricerca destinata a fallire inesorabilmente. All'inferno e ritorno,The Killing torna dopo la cancellazione su AMC – anche grazie all'apporto di Netflix – per raccontare un nuovo caso, dalle venature ancora più tragiche e oscure del precedente. La resurrezione dello show non è mai quella dei suoi protagonisti, che anzi in questa terza stagione sembrano morire ogni giorno un pò di più, senza riscatto, senza salvezza, senza giustizia. Il dispersivo thriller che in due stagioni ci aveva raccontato la ricerca dell'assassino di Rosie Larsen cresce, diventa maturo, prende coscienza di sé e si evolve in un noir oscuro e pessimista, che inquadra con mano sicura e regia coerente il proprio universo appoggiandosi ad una narrazione asciutta e a delle ottime interpretazioni. E nemmeno un finale non all'altezza delle aspettative riesce a smorzare il valore di un'ottima stagione.

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Ad un anno dalla risoluzione del caso di Rosie Larsen, Stephen Holder si trova a dover indagare sul caso di una ragazza scomparsa. Intanto l'improvviso ritrovamento del cadavere di una prostituta apre le porte alla macabra scoperta di un cimitero di giovani donne brutalmente uccise. Si tratta evidentemente di un serial killer che nel modus operandi parrebbe ricordare un caso vecchio di tre anni per il quale tuttavia l'assassino, ora condannato a morte, è già stato catturato da Sarah Linden. La coppia di agenti si riforma e le indagini la conducono in un sottobosco della società, tra giovanissime ragazze che si prostituiscono, comunità di recupero e famiglie assenti. L'indagine penetra come una lama nel corpo già ferito di un mondo ignorato e invisibile alla società, fatto di sconfitti e disillusi, in cui l'omicidio è solo la manifestazione più concreta di un malessere insanabile.

Tra i primi meriti della stagione c'è senza dubbio quello di aver gettato, in prospettiva, una buona luce sulla scrittura delle due annate precedenti. Ritrovare l'affiatamento e l'alchimia perfetta tra i personaggi di Sarah (Mireille Enos) e Stephen (Joel Kinnaman) significa riconoscere l'ottima interazione alla base del loro rapporto. Qui li vediamo più affiatati, più consapevoli l'uno dell'altro, quasi due anime affini si potrebbe dire, se non fosse che l'eventuale love interest – suggerito in un solo, brevissimo momento – sarebbe una nota decisamente stonata nella coerenza interna dello show. La determinazione che cede il passo all'istinto rimane un nodo centrale nella caratterizzazione di entrambi, e tuttavia è facile notare delle piccole sfumature che rendono i personaggi diversi. Innanzitutto il rapporto di quasi subordinazione delle prime due stagioni lascia il passo ad un'affiatata collaborazione alla pari, dovuta anche alla maturazione di Stephen: lo ritroviamo ben lontano dai problemi di droga e dal tormento che a tratti emergeva in passato, lo vediamo studiare per diventare sergente, lo seguiamo nella sua relazione con un procuratore (Jewel Staite da Firefly, non a caso protagonista di una battuta metatelevisiva sul tatuaggio "Serenity"). E d'altra parte Sarah appare invece più debole, o comunque meno capace di tener a freno una sofferenza che emerge spesso nel corso delle puntate.

Il tema cardine della stagione che, come le ormai familiari e cupe musiche dello show, lega le varie storyline, da quelle di Ray Seward (un grande Peter Sarsgaard) alla giovane lesbica Bullet alle due guardie Francis e Evan per finire con la stessa Sarah, è quello della solitudine, intesa non solo come isolamento, ma anche e soprattutto come condizione irrinunciabile dell'aderenza al proprio ruolo sociale, dell'impossibilità di andare aldilà di ciò che si è nonostante una tremenda autoconsapevolezza. Una motivazione che, anche se non approfondita a dovere, scopriamo essere alla base delle motivazioni dell'omicida.

Delle ottime interpretazioni, soprattutto in Six Minutes, miglior episodio della stagione, si è già detto. Ma l'elemento in cui veramente quest'anno The Killing si è esaltato superando nettamente le stagioni precedenti è stata la perfetta gestione del ritmo narrativo. Un ritmo che non diminuisce il numero di storyline ma al tempo stesso ne condensa le vicende eliminando i punti morti e moltiplicando gli snodi narrativi e le interazioni. Non più, come nel caso di Rosie Larsen, una scintilla iniziale che sparge fuochi isolati tutt'intorno, ma un'unica, grande fiamma che cresce e si alimenta di se stessa fino alla risoluzione finale. La tecnica conferma e riprende l'ottimo scenario delle prime due stagioni, con un'atmosfera caratteristica, plumbea, fredda, smorta e pallida come i volti dei protagonisti e una fotografia che azzera spesso la profondità di campo lasciando che lo sfondo si perda in una serie di luci indistinte e irriconoscibili.

Attenzione: da qui in avanti spoiler sul finale della stagione

the killing season 3

Parlare del finale di The Killing significa parlare anche delle tecniche di scrittura di un giallo, o poliziesco che sia, o comunque di una storia legata a doppio filo con la soluzione finale. Cosa è da preferire? Mantenere segreta e non individuabile l'identità dell'assassino calando nel finale una soluzione dall'alto – come ha fatto lo show – oppure disseminare indizi su indizi permettendo che lo spettatore (che oggi è molto più attento che in passato) arrivi da solo e confermando infine la sua intuizione senza troppe sorprese? Ognuno ha la propria sensibilità e non si può dare una risposta assoluta. Certo il massimo sarebbe una via di mezzo, ma finali come quello dei Soliti Sospetti non sono semplici da scrivere e bisogna un pò adattarsi a ciò che si ha. Tornando a The Killing ciò che è veramente difficile da perdonare è l'indizio con cui Sarah arriva alla soluzione, troppo diretto e manifesto, una "seconda" caratterizzazione del killer che serve a motivarne le azioni, una gestione imperfetta dei tempi narrativi. Anche la stessa soluzione finale, con l'agente che si lascia andare alla furia di fronte al suo collega e uccide per frustrazione il killer ormai sconfitto – identica modalità vista in Se7en – non convince fino in fondo così come il brusco taglio finale. La speranza è che le tensioni accumulate in questo finale possano in qualche modo venire riprese e sciolte in una quarta stagione che aspettiamo di veder confermata presto.

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