The Killer, la recensione | Festival di Venezia

Sembra tutto andare come al solito nella vendetta di The Killer, ogni tanto però, qualche stranezza ci fa pensare che forse c'è un altro senso

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di The Killer, il film di David Fincher con Michael Fassbender, presentato in concorso al Festival di Venezia

Grande professionalità, grande precisione e un codice rigoroso a cui attenersi per non finire vittima del suo stesso lavoro. È il killer tipico dei film ed è così anche quello di David Fincher: ha grandi capacità organizzative, sa attendere e con calma e metodo coglie l’attimo in cui la vittima è scoperta e può essere fatta fuori. Solo che stavolta sbaglia, manca il bersaglio e quindi l’occasione di portare a termine la commissione. Un giorno, diversi biglietti di aereo comprati per confondere le acque, motorini abbandonati, caschi buttati nella Senna e voli intercontinentali ed è di nuovo nella sua casa segreta, a Santo Domingo, dove trova segni di colluttazione e sangue. La sua fidanzata è in ospedale tra la vita e la morte. Nel suo lavoro non è tollerato il fallimento e i suoi datori di lavoro vogliono sbarazzarsi di lui. Dovrà farli fuori tutti.

Questo cliché del killer preciso è in teoria quello che attira in The Killer, il suo protagonista interpretato da Michael Fassbender con l’enigmatico vuoto di un androide, appositamente per eludere qualsiasi nostra partecipazione. Seguiamo i suoi problemi nel fare fuori le vittime, la paure di essere scoperto, i piani, le botte e la sofisticata rete di magazzini segreti, travestimenti e armi. Intanto, dietro di lui, va in scena il mondo del 2023, la vita per come la conosciamo oggi tra palestre, food delivery, uffici moderni, aerei, consegne negli amazon locker, ristoranti stellati, chiavi d’hotel replicabili e via dicendo. Il killer del titolo attraversa il mondo capendone tutta la logistica ma senza capirne le persone. La grande idea del film è che questa maschera impenetrabile dovrebbe fare da protagonista e invece è solo una maniera di guardare tutto il mondo che attraversa senza poterne fare parte, come un flaneur moderno che non partecipa a niente pur conoscendo e padroneggiando tutto. Se Fight Club (in modi e per versi diversi) incapsulava la fine degli anni ‘90 tra uffici a cubicolo, IKEA e benessere diffuso, questo film vuole fare lo stesso con l’inizio dei ‘20.

C’è infatti in David Fincher uno sguardo solo apparentemente simile a quello di Michael Mann in Strade violente, cioè focalizzato sull’ossessione e sulla professionalità di un lavoro criminale. Se per Mann la dedizione di James Caan è affascinante, quasi zen, è una maniera per aprire le porte a un desiderio più alto di personaggi in cerca di qualcosa di più dalla vita che sembra essergli precluso, per Fincher è curiosa e quasi ridicola. Del resto questo killer non è poi così efficace, compie diversi errori, a fronte della sua serietà e del cipiglio rischia più volte la morte, non calcola bene i tempi per interrogare una vittima e soprattutto contraddice continuamente il codice che sciorina nella sua voce fuoricampo con grande pomposità. Non siamo davvero con lui, lo guardiamo quasi con compassione, cercare di essere quel che vuole.

Ma il vero grande scarto, come un glitch o un salto di un fotogramma che stranisce, crea un effetto straniante e attira l’attenzione sul fatto che qualcosa non va, sono le sue vittime. Sono tutte più interessanti di lui, sono scritte come personaggi con cui entrare subito in contatto e, in un film più banale di questo, sarebbero risparmiate per diventare spalle. Qui invece sono fatti fuori sempre all’improvviso (anche per noi), frustrando il nostro desiderio di conoscerle e lasciandoci con questo manichino che sa solo pensare al suo codice. Sono anche personaggi che spesso, per salvarsi, vogliono entrare in contatto con lui che non sembra pronto a capirlo. Questo killer del postpandemico (il film è stato girato nel periodo subito successivo alla pandemia) non ha contatti reali con nessuno e anche quando si relaziona alla moglie in scenari più tranquilli sembra terribilmente distante e svuotato. La realtà per la quale lotta non ci pare così desiderabile. E forse, questo lo dice lui, è come noi.

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