The Irishman, la recensione | Roma 2019
Lungo, forse pure troppo, ma con due interpretazioni clamorose e un finale come nessuno saprebbe girare. The Irishman è quello che ci era stato promesso
The Irishman, la nostra recensione del film di Martin Scorsese
I bravi ragazzi sono in guerra con il governo e vogliono elevarsi quasi al suo livello.
Tuttavia questo progetto gigantesco ha anche il problema di essere gigantesco e nella lunga parte centrale sembra quasi il racconto giorno per giorno della quotidianità di Hoffa e dell’intermediario tra lui e il crimine. In tutto quel grosso troncone il film non annoia ma nemmeno avanza, affianca minacce, morti, regolamenti di conti, litigate e intrighi autoconclusivi che né portano avanti l’arco del personaggio né si distinguono per capacità di sintesi, doti immaginative o forza cinematografica. Ironicamente (vista la destinazione del film) sembrano momenti dilatati e ben scritti che appartengono più ad una serie tv di Scorsese che ad un suo film.
CORRELATO - The Irishman uscirà nei cinema italiani
I due sono ringiovaniti digitalmente per buona parte del film. L’effetto non è al medesimo livello dei film Marvel, inizialmente stona ed è più evidente ma lungo il film ci sia abitua e dopo poco non lo si nota più se non quando li vediamo a figura intera. Come già capitava con Samuel L. Jackson in Captain Marvel infatti, benchè abbiano volti giovani le loro movenze rimangono da anziani, lente e un po’ goffe.
Quello che Scorsese si ritaglia per sé allora è un lavoro complicato sul montaggio sonoro, usando le consuete musiche per tenere tutto legato ma sfruttandole anche in funzione dei momenti in cui invece la spegne, quando l’aria si ferma e tutto pare teso, per poi riaccenderle quando torna normale. E anche il montaggio generale è usato come mai prima, segno che la sua collaboratrice più indispensabile rimane sempre lei: Thelma Schoonmaker. Gli stacchi tra scena e scena sono strettissimi, molto drastici nonostante (incredibile) il passo rimanga tranquillo, lontano da quel tamburo battente che era Wolf Of Wall Street e molto più vicino all’anti-hollywood di Silence. Non c’è nessun agio nei passaggi tra scene, nemmeno un fotogramma di troppo (anzi semmai il contrario), eppure sono al tempo stesso brutali e delicati come un boscaiolo che tagli la legna senza far rumore.
Il perché di tutto ciò, cioè di questo stile compassato, lo iniziamo a capire nella seconda metà ma esplode davvero nell’ultima, bellissima, parte in cui The Irishman deflagra. C’è un peccato di cui macchiarsi, uno a cui è impossibile sottrarsi, e viviamo tutto il tragitto che porta al suo compimento con il protagonista, con la giusta calma che ci fa assaporare come il pentimento e l’espiazione comincino ancora prima che venga commesso. E poi lo scivolo verso la chiusa ha un tono autunnale che ricorda i film di Clint Eastwood, quel cupio dissolvi molto cinico e concreto, solo vagamente rischiarato dalla religione (ma sempre con quell’ambiguità di chi crede fino ad un certo punto) in cui Robert De Niro è eccezionale. C’era un motivo se per decenni è stato uno dei migliori attori su piazza e finalmente qui ce lo ricordiamo.