The Irishman, la recensione | Roma 2019

Lungo, forse pure troppo, ma con due interpretazioni clamorose e un finale come nessuno saprebbe girare. The Irishman è quello che ci era stato promesso

Critico e giornalista cinematografico


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The Irishman, la nostra recensione del film di Martin Scorsese

I bravi ragazzi sono in guerra con il governo e vogliono elevarsi quasi al suo livello.

The Irishman è tutto quello che sembrava potesse essere: un progetto monumentale, quasi titanico, dipanato lungo quasi 40 anni di storia americana in cui atmosfere e temi scorsesiani si muovono attorno ad una figura storica reale, standogli sempre accanto, dal punto di vista di un personaggio che gli è vicino. Invece di raccontare i protagonisti, come è solito fare, stavolta il punto di vista è quello di uno sgherro che fa il lavoro sporco tutta la vita, un uomo di fiducia utile ad esplorare il legame sentimentale che si crea tra questi uomini forgiati dalla guerra, uniti dagli anni di “lavoro” insieme.

Tuttavia questo progetto gigantesco ha anche il problema di essere gigantesco e nella lunga parte centrale sembra quasi il racconto giorno per giorno della quotidianità di Hoffa e dell’intermediario tra lui e il crimine. In tutto quel grosso troncone il film non annoia ma nemmeno avanza, affianca minacce, morti, regolamenti di conti, litigate e intrighi autoconclusivi che né portano avanti l’arco del personaggio né si distinguono per capacità di sintesi, doti immaginative o forza cinematografica. Ironicamente (vista la destinazione del film) sembrano momenti dilatati e ben scritti che appartengono più ad una serie tv di Scorsese che ad un suo film.

Ma in tutto questo film del resto Scorsese mette un po’ da parte la sua regia iper-presente e si dedica tantissimo agli attori. Proprio nella parte centrale è Al Pacino a reggere il tutto, mentre solo alla fine emerge davvero Robert De Niro. Il confronto tra i due è cardinale perché negli anni De Niro ha enfatizzato sempre di più la sua tendenza a lavorare in sottrazione, mentre Al Pacino è rimasto coerente con il proprio stile espressionista e carico, sono opposti e dialogano in questo modo tutto il tempo. Il secondo crea momenti di bravura e piccoli assolo anche là dove la sceneggiatura non sembrerebbe prevederli, li crea dal nulla tramite mosse e impennate di voce. De Niro al contrario fa di tutto per stare defilato, sfuggire il riflettore e servire gli altri fino a che non rimarrà l’unico in scena, nell’incredibile finale, mostrando a tutti quanto quello stile di recitazione si adatti a questa storia e alle sue finalità. È davvero un progetto che li vede impegnati come non capitava da tempo.
I due sono ringiovaniti digitalmente per buona parte del film. L’effetto non è al medesimo livello dei film Marvel, inizialmente stona ed è più evidente ma lungo il film ci sia abitua e dopo poco non lo si nota più se non quando li vediamo a figura intera. Come già capitava con Samuel L. Jackson in Captain Marvel infatti, benchè abbiano volti giovani le loro movenze rimangono da anziani, lente e un po’ goffe.

Quello che Scorsese si ritaglia per sé allora è un lavoro complicato sul montaggio sonoro, usando le consuete musiche per tenere tutto legato ma sfruttandole anche in funzione dei momenti in cui invece la spegne, quando l’aria si ferma e tutto pare teso, per poi riaccenderle quando torna normale. E anche il montaggio generale è usato come mai prima, segno che la sua collaboratrice più indispensabile rimane sempre lei: Thelma Schoonmaker. Gli stacchi tra scena e scena sono strettissimi, molto drastici nonostante (incredibile) il passo rimanga tranquillo, lontano da quel tamburo battente che era Wolf Of Wall Street e molto più vicino all’anti-hollywood di Silence. Non c’è nessun agio nei passaggi tra scene, nemmeno un fotogramma di troppo (anzi semmai il contrario), eppure sono al tempo stesso brutali e delicati come un boscaiolo che tagli la legna senza far rumore.

Il perché di tutto ciò, cioè di questo stile compassato, lo iniziamo a capire nella seconda metà ma esplode davvero nell’ultima, bellissima, parte in cui The Irishman deflagra. C’è un peccato di cui macchiarsi, uno a cui è impossibile sottrarsi, e viviamo tutto il tragitto che porta al suo compimento con il protagonista, con la giusta calma che ci fa assaporare come il pentimento e l’espiazione comincino ancora prima che venga commesso. E poi lo scivolo verso la chiusa ha un tono autunnale che ricorda i film di Clint Eastwood, quel cupio dissolvi molto cinico e concreto, solo vagamente rischiarato dalla religione (ma sempre con quell’ambiguità di chi crede fino ad un certo punto) in cui Robert De Niro è eccezionale. C’era un motivo se per decenni è stato uno dei migliori attori su piazza e finalmente qui ce lo ricordiamo.

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