The Hunt, la recensione
Il B movie come lo si studia all'università, The Hunt ha un secondo livello di lettura con dieci riflettori puntati sopra, eppure è lo stesso godibile e divertente
THE HUNT: LA RECENSIONE DEL FILM DI CRAIG ZOBEL DISPONIBILE IN DIRECT-TO-DIGITAL
A quanto pare il “manor gate” era vero, davvero i liberal americani rapiscono gli ultraconservatori più pericolosi per usarli come prede della loro battuta di caccia sportiva. Lo scoprono a loro spese proprio degli ultraconservatori, gli stessi che avevano cercato di esporre online e nei loro podcast il manor gate, ovvero lo scandalo che aveva esposto l’esistenza di un gruppo di ricchi democratici che hanno in mano il paese e che di nascosto si divertono a uccidere repubblicani di ferro, a cui pochi avevano creduto se non online. Quella che a molti pareva una fake news è quindi vera. Inizia con una corsa a prendere le armi in stile Hunger Games e procede con i primi omicidi all’interno quella che è una specie di riserva di caccia localizzata chissà dove.
Unendo la famosa, molto imitata e citata idea alla base di La Partita Pericolosa (il film di Schoedsack e Pichel del 1932) a You’re Next e usando tutto per raccontare la polarizzazione dello scontro sociale online dei nostri tempi, Lindelof e Cuse (non Carlton, cioè quello di Lost, ma suo figlio Nick) scrivono un film tutto di sceneggiatura, pieno di ironia e autoironia, in cui sia i ricchi liberal politicamente corretti, sia i più poveri complottisti di estrema destra americani sono macchiette (i primi si sentono in dovere di includere anche un afroamericano tra le vittime per ragioni di corretta rappresentazione delle minoranze, i secondi non fanno che mettersi in ridicolo). Essendoci dietro la Blumhouse (guarda caso) è evidente che stiamo girando intorno alla medesima idea di Get Out, solo trasferita nel conflitto online tra liberal e conservatori (e molto meno seria ma più alla buona, scritta da qualcuno che non crede fino in fondo nel genere ma è così abile da saperlo usare).
Gli sceneggiatori tuttavia fanno in modo che sia impossibile anche per il più scemo dei protagonisti perdere questo secondo livello di lettura, tuttavia il film è continuamente rischiarato da Betty Gilpin e anche per questo sempre superiore alla delusione che pensiamo di stare per provare.
Una volta tanto è un piacere dire che una sola attrice riesce a tenere in piedi l’interesse per un film. Le viene dato un personaggio enigmatico, che fin dall’inizio sembra non avere le reazioni degli altri, e lei lo rende un animale strano, calmo e letale, non una donna violenta come le altre ma una donna anch’essa a suo modo rabbiosa, solo che la sua rabbia è completamente diversa. È Betty Gilpin, con un repertorio di espressioni difficili da decodificare e con reazioni sempre poco prevedibili, a rendere quella rabbia molto più profonda di quella degli altri, molto più radicata, complicata e allusiva. È un’ansa di mistero che crea interesse anche maggiore delle vere ragioni e la vera origine di quel gioco mortale.
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