The Human Voice, la recensione | Venezia 77
Primo film girato dopo il lockdown ad essere proiettato, The Human Voice è cinema che manga il teatro e lavora sul volto più incredibile dei nostri anni
Questi 30 minuti tratti da La voce umana di Cocteau deviano dalle deviazioni che Almodovar stesso aveva preso nel 1988 quando da quel testo teatrale aveva creato Donne sull’orlo di una crisi di nervi, sono più fedeli allo spirito originale ma lavorano meglio di tutti gli altri adattamenti sul corpo e sul volto. Tilda Swinton è un’attrice in un teatro di posa, in cui arriva dopo aver comprato un’ascia e fatto a pezzi i vestiti dell’uomo che l’ha lasciata, al telefono con lui passa attraverso la disperazione, l’umiliazione e poi la confessione e alla fine, splendida, la risolutezza. C’è di nuovo il fuoco (Carmen Maura dava fuoco al letto) con una tanica di benzina tutta rossa, in tono con i colori e l’arredamento di Almodovar. E c’è di nuovo la potenza femminile.
Ma non solo. Tilda Swinton con gli auricolari non è confinata alla cornetta come le altre interpreti in passato, abita il suo appartamento, lo attraversa, cammina e lavora di volto e vestaglia nella stessa maniera. È teatro filmato a livelli altissimi, è cinema che prende il teatro, lo rispetta e lo aumenta iniettandoci un mondo in cui ogni oggetto grida desiderio d’amore.
Alla fine poi il corto si apre all’attualità.
Per l’adattamento Almodovar crea un teatro di posa claustrofobico intorno all’appartamento (curiosamente anche quello di Donne sull’orlo di una crisi di nervi era palesemente un appartamento finto) solo per aprirlo nel finale.
Questo è il primo film che abbiamo visto girato dopo il lockdown, e di conseguenza questa versione di La voce umana non parla solo di una donna lasciata, sofferente e chiusa nel proprio dolore che si apre ad una nuova vita. Parla del periodo che abbiamo vissuto, chiusi e di come possiamo aprirci e uscire in strada come Tilda con il suo cane.