The Haunting of Bly Manor: la recensione

The Haunting of Bly Manor raccoglie l'eredità di Hill House e racconta una storia di fantasmi meno orrorifica e più drammatica

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The Haunting of Bly Manor: la recensione

"Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi".

Le storie sulle case infestate sono racconti della memoria, confessioni o penitenze che servono a esorcizzare un male accaduto tanto tempo prima. Già Il giro di vite di Henry James utilizzava l'espediente del racconto che arriva da una fonte terza, con un classico manoscritto che serve a dare sostanza e veridicità alla storia che sta per essere raccontata. The Haunting of Bly Manor parte da uno spunto simile e tiene fede ai temi della prima stagione, quella dedicata a Hill House. In nove episodi traccia un racconto meno orrorifico e più drammatico, senza dubbio carico di pietà umana, che parla di legami, rimpianti e, in definitiva, di diverse forme d'amore.

Come per Hill House, anche stavolta lo spunto principale non si traduce in un adattamento fedele del romanzo. Certo, rimane una base comune. Come in Il giro di vite, alla villa di Bly arriva una istitutrice che si deve occupare di due bambini, orfani, incaricata da uno zio distante. Giunta sul posto, inizia a notare strani atteggiamenti nei bambini e, forse, delle manifestazioni che sfidano qualunque razionalità. Ma questo poco a poco diventa anche il racconto di altri personaggi legati al posto in modi di cui ancora non sono consapevoli. Sono figure di contorno, inizialmente legate al loro ruolo (governante, cuoco, giardiniera), che assumono sostanza.

Potrebbe non sembrare in un primo momento, ma anche The Haunting of Bly Manor diventa presto una storia corale. Ci saranno quindi episodi dedicati ad un solo personaggio, la cui storia si incastra nella catena di traumi che sono legati alla casa e a chi la abita. La narrazione non segue necessariamente un filo logico di causa ed effetto, e senza dubbio non uno cronologico, ma è legata ad un criterio più viscerale ed emotivo. Ma, insomma, chi ha visto Hill House avrà già familiarità con questo approccio non lineare, e saprà orientarsi bene nell'intreccio.

Lo sguardo di Mike Flanagan – che rimane il curatore del progetto – accarezza di volta in volta queste vite e, forse per scelta, sceglie di non addentrarsi troppo nell'orrore stavolta. Quindi jumpscare quasi assenti, poco terrore del buio, rari momenti di tensione e paura. L'atmosfera rimane, perché se è vero che la dimensione del tempo rimane importantissima, altrettanto lo sarà quella spaziale. E qui la telecamera riesce ad abbracciare il senso di altrove comunicato dalla magione, non-luogo definito da stanze e ambienti simbolici e ricorrenti, che hanno una loro personalità. I virtuosismi registici della prima stagione (quell'episodio in piano sequenza) sono però assenti.

Il cast rimane in parte quello della prima stagione. Tornano tra gli altri Victoria Pedretti, che qui ha un ruolo di primo piano, Henry Thomas, Oliver Jackson-Cohen, Kate Siegel. Ma a rubare spesso la scena sono i due giovanissimi Benjamin Evan Ainsworth e Amelie Smith, che interpretano Miles e Flora, i due bambini che vivono a Bly. Anche nelle fasi centrali della storia, quando molte saranno le domande e gli spunti rimasti insoluti, mentre l'intreccio si avvicina al picco, l'attenzione rimane alta. Arriverà lo scioglimento dei nodi e la comprensione, e ancora una volta il senso di quel che accade sarà molto legato alle emozioni dei singoli.

The Haunting of Bly Manor, come Hill House prima di lui, si emancipa da quel dubbio insolubile tra follia e orrore, tra autosuggestione e sovrannaturale (che erano importanti tanto per Shirley Jackson quanto per Henry James). Semplicemente, è un conflitto che non gli interessa avere. Perché qui, e diventerà sempre più chiaro andando avanti, sono altri i conflitti importanti. Il denominatore comune rimane l'amore e il rimpianto, l'esigenza di abbandonarsi ai sentimenti – o di reprimerli – contrapposta al senso di colpa.

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