The Happy Prince, la recensione

Buttato via appresso ad un'assurda e velleitaria voglia di poesi a tutti i costi, The Happy Prince aveva le carte in regola per essere un buon film

Critico e giornalista cinematografico


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La parte più sofisticata di The Happy Prince (il primo film da regista per Rupert Everett) è la fotografia. Oscar Wilde vive in un mondo plumbeo fatto di nebbia, poco sole e un grigiore continuo, creato ad arte con un fortissimo gusto estetico. Un mondo in cui ogni raggio di sole che si manifesta pretende di essere un verso di una poesia ma purtroppo, al pari di tutto ciò che pretende di essere poetico assecondando la nostra idea preconcetta di esso, non lo è.

Questo film compiaciutissimo e autocommiserevole non ha tanto il fine di raccontare una storia ma più quello affiancare momenti più o meno miseri dell’ultima parte della vita di Oscar Wilde, per mostrare la punizione che ha dovuto subire (e che subivano allo stesso modo molti altri) per essere stato anticonvenzionale ed edonista come ci viene tramandato. Ne abbiamo sempre sentito raccontare il lato spavaldo, anticonformista e di successo, per la prima volta vediamo cosa tutto questo ha comportato.

Era lo spunto migliore per affrontare uno dei personaggi più abusati in assoluto, uno che fugga i consueti aforismi (ne arrivano solo un paio nel finale, quando hanno un senso) e non ne glorifichi la statura ma semmai ne compianga la fine. Purtroppo The Happy Prince si getta via rifiutando uno svolgimento propriamente detto (che lo avrebbe aiutato molto) e fissandosi come obiettivo il pietismo più totale. Perché in realtà la sceneggiatura che mostra quella vita misera comunque più vitale, nei suoi rari sprazzi di godimento decadente, di quella dei familiari che l’hanno rinnegato, ha più di un momento interessante.

E soprattutto stupisce l’interpretazione di Rupert Everett che svicola le scelte più facili e non è mai macchiettistico, anzi dona una caratterizzazione molto credibile ed autentica al protagonista. Peccato quindi che The Happy Prince faccia della sofferenza una missione e che intenda mostrare l’accanimento della società sulla stessa persona che prima applaudiva, con un sadismo e un compiacimento che allontanano invece che avvicinare, che somigliano più ad una captatio benevolentiae che ad un onesto racconto.

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