The Guilty, la recensione

A partire da una chiamata al centralino della polizia parte The Guilty, un thriller tutto d'immaginazione, montaggio e sceneggiatura

Critico e giornalista cinematografico


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Qualcuno è in pericolo e ha chiamato la polizia danese, trovando al centralino la persona giusta. Intorno a questo concept sofisticato ed essenziale, capace di srotolarsi con grande presa prima ancora che parta l’intreccio vero e proprio, si svolge The Guilty. C’è un poliziotto che è stato sbattuto al centralino, non dovrebbe stare lì, è un uomo d’azione ma ha fatto qualcosa ed è in attesa di un giudizio, dunque sta lì. Quando arrivano le telefonate le deve smistare ma fa fatica a farlo senza intervenire. Quando arriva quella che occuperà le prossime due ore della sua e della nostra vita non riuscirà a non mettersi in mezzo.

Una donna è stata rapita e ha chiamato la polizia dall’auto del rapitore fingendo di parlare con la figlia. Dove sono? Come trovarli? Come coordinare le pattuglie? E quando non li trovano come si può risalire a cosa sia successo? Quest’uomo che ha un trauma e dei guai personali ha deciso di salvare una donna che chissà dove sta, di cui non sa niente ma dalla cui incolumità sente che dipende la salvezza della propria anima. La storia si rivelerà profonda e intricata, piena di colpi di scena e svelamenti da viversi da dentro il centralino, immaginando tutto.

È il principio di Locke, il bel film di Steven Knight che poi era stato ripreso in Beast Of Burden fino ad arrivare qui: qualcuno passa tutto il film al telefono per risolvere una situazione che gli tocca e ci tocca immaginare. Solo che la trama thriller di The Guilty non ha niente a che vedere con i problemi familiari degli altri due film, poteva anche svolgersi in maniera canonica ma in questo modo diventa uno sforzo di immaginazione giostrato sul paesaggio del volto del protagonista. Pura evocazione da cinema che nega il narratore onnisciente e ci sbatte nell’ignoranza del protagonista. Nonostante non siamo ai vertici della recitazione mondiale Gustav Moller ha il piglio e il montatore giusto per riempire di dettagli la messa in scena, ha lo sceneggiatore giusto (se stesso assieme a Emil Nygaard Albertsen) per ingarbugliare la questione senza renderla artificiosa, nonchè il controllo necessario per non esagerare e consegnare un film equilibratissimo.

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