The Greatest Showman, la recensione
Senza nessuna personalità ma determinato a fare dello sfarzo la sua cifra, The Greatest Showman insegue Baz Luhrmann trovando Chicago
Quella di P. T. Barnum e della sua grande impresa, creare da zero uno spettacolo per cui valga la pena pagare, il circo moderno fatto di animali, atleti e soprattutto “freak”, è in realtà una storia più che classica per i musical della seconda metà del novecento, quella di una compagnia che cerca di mettere in piedi uno show, con l’impresario nel ruolo protagonista, la trapezista in quello della bella ballerina (Zendaya) e i suddetti freak nelle parti comprimarie.
Se narrativamente The Greatest Showman è abbastanza approssimativo, visivamente è evidente che Michael Gracey abbia nel mirino Baz Luhrmann e quell’idea caotica, kitsch, colorata e molto pop di musical. Gli esiti tuttavia sono così derivativi che si fa fatica a credere seriamente al modello. Semmai il film è più vicino a Chicago e a quell’estetica ricca di sfarzo e povera di idee, in cui la coreografia dei balli è sufficientemente sofisticata ed elaborata, ma mai nel comparto del fisico e del ballo vero. Tutto avviene infatti intorno ai personaggi che non ballano ma si muovono a tempo, di fatto sprecando due artisti capaci come Zac Efron e Hugh Jackman. Se un approccio simile è perfetto per La La Land (che mai punta sulla sofisticazione della messa in scena ma più sulla recitazione), non lo è altrettanto in un film che si prefigge di mettere in scena un grande spettacolo.
Inoltre più il film va avanti e più si ha l’impressione che invece che utilizzare musica e danza per esaltare quel che accade, queste siano usate per mettere delle pezze, tappare falle di storia e vivacizzare momenti morti. Il risultato è che The Greatest Showman non fa altro che enfatizzare i suoi molti problemi, il primo dei quali è una sbrigatività inspiegabile. Non ci vorrà molto perché un personaggio cambi idea o perché un altro si convinca a fare quel che non voleva fare. Tutto accade con una rapida semplicità che è l’esatto contrario di quello di cui il film vuole convincerci, cioè che ci siano grandi sfide intellettuali in ballo, che ci sia un grande lavoro, una grande sofferenza e quindi una grande ricompensa.
Certo nei musical è sempre così, tutto è grande, grandioso e gigantesco, perché celebrano la vita alle massime potenzialità, il migliore dei mondi che non esiste e in cui si canta come si respira. Ma se tutta questa grandezza rimane più negli intenti e nelle coreografie, che nel senso della storia, è difficile riuscire a convincere.