The Great Wall, la recensione

In una storia scritta senza personalità si muovono personaggi che sembrano generati da un computer. Ma forse è proprio quello il punto di The Great Wall

Critico e giornalista cinematografico


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Nelle regioni più remote del confine cinese, là dove la grande muraglia fa da baluardo innaturale contro le invasioni aliene, arrivano due occidentali. Non sono i primi a spingersi fin lì alla ricerca dell’ultimo ritrovato scientifico scoperto e posseduto dai popoli cinesi: la polvere da sparo. I mercenari scopriranno però che qualcosa di ben più minaccioso e seriamente “alieno” incombe su quel regno, una razza di mostri arrivati con un meteorite che periodicamente da centinaia di anni insistono a voler superare il muro venendo ogni volta a fatica respinti. Perché non vadano altrove è un mistero molto conveniente per la trama.

The Great Wall è un film disumano.

Non sembra per niente umano Matt Damon, mercenario senza patria e senza fiducia negli uomini, individualista (come tutti gli occidentali), che scopre di colpo la fiducia nel prossimo dopo un ispiratissimo discorso. Ma del resto, in questa sceneggiatura scritta da Tony Gilroy e altri compagni di sventura in modo da sembrare scritta da nessuno come un’unione di tanti luoghi comuni noti del cinema moderno, non è umana nemmeno Tian Jing, generale del grande muro, interesse sentimentale e cuore del film che a fronte di tutta la trattenuta emozione non manifesterà mai un vero sentimento.

Forse allora è proprio in questo filmetto di grandi prospettive e budget ma pochissimo conto, così elementare e ridotto ai minimi termini per cercare di accontentare tutti (i produttori), che esce fuori più di tutti la visione di Zhang Yimou dell’eroe-massa, concetto vetusto da cinema sovietico che nessuno come questo regista cinese ha riportato in vita da quando ha accesso a budget favolosi per filmoni giganti e compiacenti. Hero è stata la prova generale, La Foresta Dei Pugnali Volanti l’esperimento più compiuto e La Città Proibita un incredibile tentativo di cambiare il sistema da dentro e spingerlo verso l’astrazione letteraria. Ora The Great Wall sembra far scontrare colori più che uomini, forme astratte, corazze da Power Rangers in un copione insulso. Senza stimoli autoriali o missioni culturali, cadono anche tutti gli orpelli che impedivano di vedere come anche in passato Yimou guardasse gli aggregati di uomini di poco conto: disumanizzando gli esseri umani veri e tentando di umanizzare quelli digitali fino a che non si somiglino.

Il lavoro per la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi di Pechino ha mostrato come questo regista possa dirigere masse di uomini per farle sembrare comparse digitali, capaci di muoversi con precisione esatta e movimenti che li fanno sembrare agiti da un modello matematico. Qui accade lo stesso, i mostri e gli uomini si spostano come ballerini di un musical di massa, come frattali, e per questo anche loro non ricordano gli umani reali ma più i disegni geometrici.

Disumani i movimenti di massa computerizzati, disumane le configurazioni di mostri, disumani i protagonisti le cui scelte e i cui dialoghi non rispondono alle logiche riconoscibili dell’umanità e in fondo disumana anche la regia che predilige gli scontri cromatici, The Great Wall è un passo verso un inutile astrattismo cinematografico.

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