The giver - Il mondo di Jonas, la recensione

Basato su un romanzo che precede la nuova ondata di fantascienza per giovani adulti ma poi totalmente ripiegato sulle idee di successo di Hunger Games, The giver non ha personalità

Critico e giornalista cinematografico


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Ci sarebbe da gridare all'ennesima scopiazzatura di Hunger Games se The giver non si basasse su un romanzo del 1993, largamente antecedente a quelli di Suzanne Collins, eppure è inevitabile che il suo primo adattamento per il cinema risenta e richiami il film di Gary Ross e le dinamiche della nuova fantascienza per giovani adulti.

Originariamente The giver (libro) era una specie di versione autonoma dei principi base tracciati da Aldous Huxley nel 1932 con Il mondo nuovo, ovvero una società che fa di tutto per levare umanità agli uomini così da tenerli a bada, la divisione in caste (che qui si traduce nell'assegnazione di un futuro scritto per ognuno), la cancellazione del passato del mondo, il concepimento in laboratorio e via dicendo. Ma nella sua versione filmica non diventa La fuga di Logan (forse la versione più fedele nello spirito tra le distopie non direttamente ispirate a Il mondo nuovo) quanto qualcosa tra Hunger Games e Divergent (Meryl Streep ha lo stesso ruolo di Kate Winslet), cioè subisce l'influenza di successi più recenti senza riuscire a centrare i loro stessi obiettivi.

Con un protagonista maschile al posto della consueta eroina ma il medesimo feeling di "essere unici in un mondo che ti vuole omologato", la medesima metafora del passaggio d'età (è nel momento in cui gli viene assegnato il lavoro per la vita che il protagonista comincia a capire che esiste qualcosa di più) e il medesimo messaggio di ribellione della classe dei figli contro quella dei genitori, The giver si connota come una versione all'acqua di rose delle avventure di Katniss Everdeen.
A mancare totalmente al film in fatti è il fascino di una perdizione totale. L'oppressione perpetrata attraverso l'annullamento delle emozioni non trova mai la rabbia dello spettatore, la lenta scoperta di un altro mondo, fatto di colori, sentimenti e libera espressione è rappresentato attraverso un immaginario di repertorio (nel senso stretto, sono proprio immagini non girate per l'occasione) che attinge più alle pubblicità degli orologi, dei profumi e degli assorbenti!

Il progetto era stato cullato a lungo da Jeff Bridges (che interpreta il grande vecchio incaricato di trasmettere la conoscenza del passato al protagonista) e alla fine è stato scritto da Robert B. Weide e diretto da Philip Noyce, un team decisamente più ferrato con cinema diretto alla generazione dei genitori che a quella dei figli, visibilmente a disagio con l'idea di colpire duro i grandi e assolvere in pieno i più giovani che poi è la base del successo di questi film. Alla fine pare che tutto il compito di rendere la liberazione del protagonista (vero asse portante del film) sia lasciato al passaggio tra bianco e nero e colore. Un po' poco considerato quel che si vede in giro.

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