The Girl With The Needle, la recensione | Cannes 77

È così maldestro e mal scritto The Girl With The Needle che finisce dove probabilmente non voleva andare: nel moralmente aberrante

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di The Girl With The Needle, il film di Magnus Van Horn, in concorso al festival di Cannes

Potrebbe essere il mondo di The Elephant Man di David Lynch quello in cui Magnus Van Horn ambienta The Girl With The Needle, un’Europa dei primi del Novecento, più precisamente la Svezia dopo la prima guerra mondiale, lurida e piena di pregiudizi, cattiva e fotografata con un bianco e nero che enfatizza lo sporco. In The Elephant Man questo mondo infame era finalizzato a creare empatia con il protagonista, creatura indifesa e pura, qui invece è una carrellata di mostri e violenza per un film drammatico girato come un horror. Non c’è da avere un raffinato gusto estetico per capirlo, ci pensa lo score a gridarlo, uno score che è esattamente quello dei film di fantascienza con mostri.

Le armonie potenti che di solito si usano per annunciare l’arrivo del dramma mortale in The Girl With The Needle sottolineano momenti di transizione, scene che non hanno nulla di particolarmente drammatico. È quel mondo lì a essere mostruoso, e del resto delle persone, quando si spegne la luce, continuiamo a vedere gli occhi, come puntini luminosi nel buio di creature che abitano il buio e attendono di predare. Così quando il marito della protagonista (sola al mondo e al lavoro in una fabbrica) torna dalla guerra con il volto deturpato e una maschera/protesi per nasconderlo non suona strano che sembri disumano e spaventoso. È un mostro della prima guerra mondiale (uno dei due che la ragazza incontrerà) con sindrome da stress post-traumatico che nessuno gli potrà diagnosticare.

Questa protagonista pessima prima lo lascia, perché spaventata dalle sue crisi e contemporaneamente affascinata dal padrone della fabbrica che promette di sposarla (salvo ritrattare perché la mamma non vuole), e poi finisce in casa con una donna per bene, pulita e di buon lessico, che traffica in neonati. Li compra da chi vuole liberarsene e poi li vende a famiglie che non riescono ad adottare (o magari vogliono fare prima). La protagonista, sensibile alla cosa perché lei stessa è passata attraverso una gravidanza, la aiuta. Questo, sia chiaro, è un film che cerca lo shock value dei neonati maltrattati, per aggiungere mostruosità a mostruosità, ma una volta che lo raggiunge (cosa non troppo difficile) non è che sappia bene cosa farci.

Per dare un senso al titolo ci sono molti aghi (siringhe per placare i demoni, aghi da cucito per abortire, aghi per cucire in fabbrica) in questo film che finge di avere uno stile usando il suo bianco e nero e quelle musiche a contrasto, ma in realtà non lo ha. Nessuna delle sue scelte ha la coerenza che serve per creare uno stile, nessuna ha un senso o arricchisce ciò che viene raccontato. È l’imitazione o la parvenza di uno stile, in uno dei film più vuoti di questo festival, talmente maldestro da risultare anche moralmente aberrante. Le ragioni per le quali le madri si liberano dei figli non sono mai mostrate, né vengono raccontate le loro storie, in più non si interessano mai di cosa accade a quei bambini, così The Girl With The Needle sposta su di loro (cioè sulle madri) la colpa del destino dei neonati, le dipinge come l’ennesimo mostro di quella società invece di fare il lavoro che ci si aspetterebbe su un tema simile: spiegare, capire e comprendere. Del resto dalla scelta di far scappare la protagonista da un personaggio che è decente fuori e mostro dentro, a uno che è mostro fuori ma decente dentro (perché non è l’apparenza a cui si deve badare!), si capisce il livello terra terra di tutta l’operazione.

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