The girl on the train, la recensione
The girl on the train, diretto dal regista indiano Ribhu Dasgupta, rimescola gli elementi del genere thriller creando un film goffo, pesante e ripetitivo, che non riesce in alcun modo a convincere e che anzi stanca già dopo pochi minuti di visione.
È mettendo in campo tutti i possibili cliché del thriller, tra omicidi, incidenti e immancabili plot-twist, che il nuovo adattamento del romanzo The girl on the train di Paula Hawkins (dopo il remake americano di Tate Taylor con Emily Blunt), diretto dal regista indiano Ribhu Dasgupta, rimescola gli elementi del genere creando tuttavia un film goffo, pesante e ripetitivo, che non riesce in alcun modo a convincere e che anzi stanca già dopo pochi minuti di visione.
L’adattamento di Dasgupta è un vero e proprio caos di personaggi, linee temporali e indizi. Tutto, dal più piccolo dei dettagli alle più grandi svolte di trama, sembra infatti essere inutilmente esagerato o gratuitamente complesso: in questo modo, si perde fin da subito il filo della narrazione e ogni tipo di appiglio che lo spettatore può avere nell’identificarsi con i personaggi. L’impressione è quella che The girl on the train abbia voluto puntare in alto per creare un crime ad alta tensione, ma che la sua stessa volontà di sofisticazione abbia reso ancora più chiari i suoi limiti e la sua mancanza di controllo sulla materia narrata.
La regia di Dasgupta, sebbene riesca a rendere anche bene le singole scene, ben inquadrate e ben illuminate, sul lungo corso non aiuta in alcun modo la storia che, ostinata in una struttura temporale di flashback e flashforward, risulta appesantita da un’insistenza e una ripetitività assolutamente non necessarie.
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