The French Dispatch, la recensione | Cannes 74

Sempre più interessato ai gruppi Wes Anderson in The French Dispatch perde di vista i singoli e così l'interesse per il film crolla tutto insieme

Critico e giornalista cinematografico


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The French Dispatch, la recensione | Cannes 74

Può sembrare che Wes Anderson non cambi mai, che i suoi film siano uguali da 20 anni, ma non è vero. Il suo stile così evidente e preciso è in continua evoluzione (per quanto sempre nella medesima direzione) e un film come Le avventure acquatiche di Steve Zissou è lontanissimo dall’ultimo The French Dispatch, in cui continua a dimostrare la volontà di spostare la messa in scena di attori reali in ambienti reali nel mondo dell’animazione, di dirigere e scrivere personaggi partendo dal character design (l’ha sempre fatto) per poi farli muovere nell’inquadratura come personaggi animati, con quell’economia di gesti ed espressioni che diventa ricchezza.

Insomma la stilizzazione.

Il punto è che la stessa stilizzazione ha contaminato la scrittura, ma senza i medesimi risultati positivi. I film di Wes Anderson, dopo Moonrise Kingdom, hanno sempre meno dei personaggi al centro delle loro storie e sempre di più degli insiemi. Là dove c’erano dei gruppi che sono o somigliano a famiglie, ora ci sono comunità. I boy scout, un grande hotel o il complesso di figure di L’isola dei cani. L’elemento umano, che era una caratteristica cruciale dei suoi primi film, quelli in cui riusciva sempre a far sì che nei suoi mondi così irrigiditi e inquadrati e nella recitazione così ingessata facesse breccia un sentimento tanto più forte quanto più aveva dovuto faticare ad uscire, è sempre meno di interesse. Più personaggi da guardare a volo d’uccello e meno storie da approfondire.

The French Dispatch inizia descrivendo il giornale al centro di tutto, subito con un’inquadratura in stop motion (che ingloba nel film benissimo senza che si noti troppo) e poi tra establishing shot che sembrano stare anch’esse tra l’illustrazione naif e l’animazione anni ‘60 (più una citazione molto carina di Jacques Tati) e tra l’astrazione sempre più evidente degli ambienti, dovrebbe emergere lo spirito umano di questa collettività (che era ciò che salvava Grand Budapest Hotel, l’amore del concierge per il suo hotel). Lo spettatore attende, attende e attende il momento in cui il film oltre a mostrare questi bozzetti curatissimi inizi anche ad ingranare. Attende invano (annoiandosi anche un po’) fino a che il film finisce.

Anche Timothée Chalamet, il più in forma dei tantissimi attori all’opera che ha su di sé il segmento potenzialmente più coinvolgente, non riesce a fare troppo. Il suo corpo che sembra fatto per i film di Wes Anderson e la personalità intellettuale e romantica che diversi film hanno creato intorno a lui, da soli iniettano un po’ di emotività che The French Dispatch associa all’attivismo, ai grandi manifesti e, come spesso gli capita, anche ad un’ingenuità che crea un contrasto molto vivo con il desiderio di comportarsi da adulti (era il cuore di Moonrise Kingdom, il suo film più romantico). Però a parte un’eccezionale inquadratura molto fasulla (e per questo molto bella) in moto con il suo amore e con la sigaretta in bocca (una vera illustrazione con un punto di vista storto, capace di dire da sola molto di più di un film intero), anche lui ha pochissimo da fare se non muoversi come un cartone in un mondo di carta.

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