The Father, la recensioneLove will tear us apart. Un brano che Anthony non ascolterebbe mai. In casa con le cuffie sente arie dell’Opera, delicata musica classica. Eppure quei brani (almeno quelli cantati) non dicono qualcosa di troppo diverso. In questa storia universale (ma alto borghese) di padri anziani e figlie adulte, di senilità e demenza incipiente, ma soprattutto di un distacco necessario e ingiusto, c’è quello che spesso manca ai film sull’invecchiare o perdere la testa: il sentimento. Che invece è ciò che si acuisce nelle vite di chi è vicino a persone anziane con le quali diventa impossibile avere a che fare e che si trasformano in una slot machine di ricordi casuali e improvvise commozioni tremendamente coinvolgenti.
Fa davvero impressione il fatto che
Florian Zeller, che questa storia l’ha scritta per il teatro e poi l’ha adattata al cinema e infine ha diretto il film, sia al suo debutto. Il suo è un film di interni in cui proprio l’architettura delle stanze rappresenta la testa del protagonista,
cambia, muta, si sposta, torna indietro e di colpo avanti. Lo sorprende e gli sconquassa la percezione.
Zeller dirige e mette in scena come un maestro navigato, come farebbe
Polanski, il fatto che la sua casa è la sua testa, alle volte ci sta bene, in altre è popolata da estranei. Perché la figlia (
Olivia Colman in un’interpretazione così emotiva, calda e avvolgente che fa dimenticare il fatto che fino a ieri con
Fleabag, La Favorita e
The Crown sembrava la regina della freddezza) alle volte ha delle sembianze e delle volte altre. Ci sono persone che dicono di essere chi non sono e altre che spariscono. Noi in tutto questo cerchiamo di districarci tra le stanze della mente di Anthony, di capire cosa sia successo e dove stia la verità. È un trucco, un mistero di trama che attira e tiene avvinti ma che in realtà serve a spingere a sentire insieme ad Anthony le conseguenze emotive degli eventi.
Essendo tratto da un’opera teatrale The Father è un film di attori senza per questo trascurare il resto della messa in scena. L’espediente di osservare tutto tramite gli occhi di una persona affetta da demenza senile compensa e arricchisce, oltre a dare ad Hopkins modo di non avere per forza l’attenzione sempre su di sé (anche se comunque è il centro di tutto) e di poter lavorare con più libertà. Soprattutto a differenza di molti film centrati sulla recitazione, questo non è un film di dialoghi. Il 90% delle battute potrebbero essere sostituite con altre peggiori e non cambierebbe troppo, perché il punto non è mai cosa dicono ma cosa rivelano i personaggi dicendole.
E su tutti c’è lui,
Anthony Hopkins, che ritrova voglia e impegno dei tempi migliori, spazia e crea tantissimo intorno ad un personaggio che sta sparendo. Alla fine non potremo dire di aver conosciuto questo Anthony ma potremo dire di aver capito perfettamente il suo smarrimento e la maniera strana e umana in cui, proprio questo smarrimento, lasci emergere sentimenti, affetti e bisogno di vicinanza. Una tensione verso il contatto con qualcuno di caro che sa di infantile ma che è anche così concreta e necessaria da suscitare commozione autentica. Quella commozione che viene dal vedere la propria interiorità esibita e palesata da un’altra persona.
Hopkins riesce (di nuovo) nell’impresa delle interpretazioni migliori: riesce a dare ad ogni spettatore l’impressione di stare parlando solo a lui.
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