The Falling Sky, la recensione | Cannes 77

The Falling Sky offre un'interessante spaccato sugli Yanomami del Brasile ma manca di personalità nel modo di raccontarne vita e usanze.

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La recensione di The Falling Sky, il film diretto da Eryk Rocha e Gabriela Carneiro da Cunha presentato al Festival di Cannes

Il bestseller ecologista da cui è tratto The Falling Sky (2010) racconta la vita degli Yanomami, popolo indigeno del Brasile che ancora oggi mantiene in gran parte lo stile di vita e le usanze precedenti la colonizzazione europea. Il film riporta in immagini la missione del libro, recandosi sui luoghi reali per mettere in forma audiovisiva quello che Davi Kopenawa e Bruce Albert raccontavano a parole. In entrambi i casi non si tratta solo di un documento antropologico, ma di un grido d'allarme per la sopravvivenza di questa antica civilizzazione, minacciata un tempo dall'espandersi delle ferrovie, oggi dallo sfruttamento selvaggio delle risorse boschive della foresta amazzonica. Uno scopo onorevole però non equivale a un film, e purtroppo questa trasposizione-documento rimane a metà strada, faticando a trovare un linguaggio interessante quanto i suoi soggetti.

E dire che The Falling Sky inizia con un'inquadratura potentissima, una delle più belle che si siano viste quest'anno a Cannes: l'intera tribù Yanomami, ripresa frontalmente col capovillaggio in testa, avanza verso la cinepresa (fissa) lasciando che la loro presenza invada lentamente il campo visivo e uditivo del pubblico coi loro costumi e canti tradizionali. Con la solennità di un Béla Tarr i registi Eryk Rocha e Gabriela Carneiro da Cunha costruiscono un'introduzione poderosa, che interroga il destino di questo popolo. Da dove vengono? Dove andranno (hanno futuro)? Nelle successive due ore, informative ma un po' soporifere, impariamo effettivamente tanto sugli Yanomami. Ma il documentario sembra adagiarsi su di loro più che narrarli con forza, trovando solo occasionalmente l'ispirazione per tradurre in stile il proprio punto di vista.

L'idea più ricorrente e più interessante, nel senso che forma e contenuto sembrano andare di pari passo, è quella per cui gli Y. si percepiscono in guerra con i "popoli della merce", come li chiama il capovillaggio con vago sapore marxista, cioè Usa ed Europa. Che tolgono loro lo spazio vitale con la ferrovia e amputano la loro bella foresta per spedire legname a tutti gli angoli del mondo. Quest'idea di conflitto loro la prendono e la inscrivono nella propria mitologia orale, dove il capo-sciamano assurge quasi a figura di eroe epico che (comunicando col mondo degli Spiriti) difende il popolo dal suo nemico bianco. Qui, anche se purtroppo non a sufficienza, sembra finalmente che Rocha e da Cunha trovino idee di narrazione interessanti, costruendo una traccia sonora fatta di trasmissioni radio gracchianti (come in un Vietnam movie) e regalando la splendida scena di un rito propiziatorio/dichiarazione di guerra.

Non è però sufficiente a tenere insieme un film che troppo spesso si accontenta di riprendere gli Yanomami in modo abbastanza passivo, e che solo occasionalmente ritrova un lampo memorabile: la silhouette di una bambina ripresa in controluce da dentro una capanna; le parole dell'anziano del villaggio che medita se sia giusto o meno sottoporsi alle riprese del film, se servirà a cambiare qualcosa. C'è un film molto interessante nascosto dentro The Falling Sky. Peccato che non si sia scavato di più per trovarlo.

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