The English Game: la recensione
The English Game non riesce a elaborare l'idea di epopea sportiva che pure vorrebbe raccontare, e ricade negli stilemi di un melodramma superficiale
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Strano pensarlo, ma c'è stato un tempo in cui il calcio, il passatempo popolare per definizione nel mondo, era uno svago elitario. Così ci viene presentato nella miniserie The English Game, composta da sei episodi e distribuita da Netflix. La serie è stata creata da Julian Fellowes, già autore noto per essere la mente creativa dietro Downton Abbey, e ruota proprio intorno alla genesi del calcio come attività professionale. La miniserie tuttavia non riesce a elaborare l'idea di epopea sportiva che pure vorrebbe raccontare, e ricade negli stilemi di un melodramma superficiale.
Sembra niente, e invece è tutto, considerato che viene ripetuto moltissime volte come questa sia un'anomalia (per non dire proprio un'irregolarità). Proprio da questa situazione però si sviluppa un dibattito su due livelli tra le classi più agiate e quella degli operai. La storia è raccontata dal punto di vista soprattutto di Suter e di Arthur Kinnaird, calciatore famosissimo (praticamente una star dell'epoca) e esponente di una famiglia di banchieri. Ma il calcio è spesso lo sfondo di storie che parlano di padri alcolizzati e violenti, ragazze madri, aborti, tumulti e scioperi.
L'intreccio è pervaso da una pesantezza drammatica, ma superficiale e scontata come lo saranno quasi tutte le storyline della serie. A tutto questo, come necessario alleggerimento, fa da contraltare un buonismo atteso e puntuale, che però si manifesta in momenti melodrammatici esagerati e alla fine svuota di verosimiglianza il percorso dei personaggi. È davvero difficile raccontare una storia in cui la sincerità e la passione sportiva si conciliano con un'etica di altri tempi, che oggi a noi sembra lontana. Momenti di gloria, ad esempio, ci riusciva benissimo, ma solo perché si focalizzava davvero solo su quello, sul singolo gesto atletico e su cosa esso rappresentava.