The Eddy, la recensione dei primi due episodi | Berlinale 2020
The Eddy è una serie senza compromessi che non è solo piena di musica ma usa la musica per raccontarne la dipendenza e il potere
THE EDDY - LA RECENSIONE DEI PRIMI DUE EPISODI DELLA SERIE NETFLIX IN ARRIVO L'8 MAGGIO
The Eddy non fa finta, per niente, nemmeno per un momento. Non finge mai nulla, non si maschera da niente, non simula mai.
Si presentano così i primi due episodi della serie creata da Damien Chazelle, visti alla Berlinale, che andrà su Netflix dall’8 Maggio per 8 puntate (guarda il teaser).
Tutto è filmato in un glorioso 16mm granuloso e sabbioso, tutta macchina a mano nervosa che oscilla tra il rumore delle strade e la musica del locale. I primi due episodi sono diretti da Damien Chazelle con piglio opposto a La La Land e più vicino a Whiplash, non è un mondo ideale questo ma uno terribile, in cui suonare è l’unica cosa che conta. Forse per questo si trova così a suo agio questo regista nel raccontare di un uomo, il proprietario del locale, che ha mandato tutto all’aria per la sua musica e continua a mandarlo di puntata in puntata, continua a non stare attento quando gli parlano perché pensa alle sue composizioni, pensa al locale, pensa a come vada suonato un certo brano.
The Eddy, scritto da Jack Thorne (lo stesso di Queste Oscure Materie) suona in armonia con il mondo di Chazelle, ha il medesimo desiderio profondo di raggiungere l’eccellenza attraverso un delirio infernale che è il percorso per raggiungerla e tramite la violenza insita nella lotta per la supremazia artistica.
Ovviamente c’è altro nella serie, già la seconda puntata è più centrata sulla figlia a lungo trascurata e ora problematica. Eppure ogni volta l’impressione sia che sono i brani a trascinare tutto, che è quell’ansia di suonare e cantare, quel mondo che gira intorno a quella musica a salvare e condannare tutti. The Eddy riesce nella rara impresa di mettere davvero la musica in primo piano, sapendo che questo non piacerà a tutti. A parte gli attori protagonisti, gli altri che suonano sono musicisti, c’è anche la splendida Joanna Kulig, già protagonista di Cold War, con la sua voce clamorosa e c’è Tahar Rahim (Il Profeta) che sembra quasi saper suonare la tromba. Ma soprattutto c’è André Holland motore dalle poche parole e molte note di questa odissea terribile nei problemi di un jazzista emigrato a Parigi.
Come sempre due puntate sono poche per capire come sarà la serie ma l’impressione di coerenza e aderenza musicali sono così clamorose che è impossibile pensarne male. Il grande racconto delle peripezie e delle tribolazioni degli esseri umani per arrivare ai propri obiettivi, instradato nel mondo di musica e crimine (da sempre attigui se si parla di jazz) è un tassello determinante per la nuova serialità, che di potere, crimine e antieroi ha lastricato la propria strada e che di un jazzista malato di musica e pronto a tutto aveva bisogno come il pane. Quel che non potevamo prevedere è che arrivasse qualcuno così innamorato della musica da aver capito e avere la forza di far capire a tutti quanto proprio dalle armonie discenda la perdizione, quanto quei suoni siano una sirena che tutto attira e tutto mangia, un’attrazione dalla forza quasi sessuale di fronte alla quale si può fare ben poco.
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