The Disciple, la recensione | Venezia 77

The Disciple di Chaitanya Tamhane nel suo rappresentare una nicchia infinitesimale della “grande macchina” dello showbusiness riesce ad essere universale, a dire schiettamente che spesso si è solamente dei perdenti.

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A star is born… anzi no. Opposto a forse qualsiasi film hollywoodiano sul successo, sul “diventare qualcuno” (ché i film hollywoodiani, anche quando presentano dei perdenti privi di capacità, questi vengono quasi sempre salvati dal destino) The Disciple di Chaitanya Tamhane è invece la rappresentazione della cruda realtà dello showbusiness. Nello specifico, lo showbusiness in questione è quello musicale, e ancora più nello specifico quello indiano: è un quadro davvero particolare (sia come ordine di grandezza che tematico - chi lo sapeva cosa fosse un rag tradizionale?) che nel suo rappresentare una nicchia infinitesimale della “grande macchina” riesce ad essere universale, a dire schiettamente che spesso si è solamente dei perdenti. E basta.

Il perdente in questione è Sharad, un ragazzo che sogna di diventare un cantante di musica classica indiana. Sharad si prende estremamente sul serio, vota tutta la sua vita al suo sogno, rinunciando a ogni altro possibile desiderio o svago (non ha amici, non ha una ragazza, non ha un lavoro vero, vive praticamente in clausura), e passa quasi tutto il tempo esercitandosi con il suo guru musicale (è infatti un film pieno, pienissimo di musica). È seguendo Sharad nel suo tentativo di sfondare che Tamhane ci presenta il desiderio del successo nella sua versa dimensione: quella quotidiana, quella proprio della noia, del provare e riprovare o del semplice passare il tempo ad autocommiserarsi guardando il successo altrui.

Ed è forse proprio la noia del personaggio – necessaria per costruirne l’arco narrativo, proprio perchè “mancato” – che forse in primis fa storcere il naso allo spettatore verso The Discpile. Ma più si pensa a questo film più ci si rende conto che è proprio rendendo quel sentimento che il film riesce così bene a raccontarci quel mondo. Attraverso riprese a camera fissa o con leggeri movimenti di macchina (sempre tensivi, a zoomare verso la faccia perennemente delusa di Sharad) seguiamo il personaggio nel suo triste viaggio verso la disfatta, esplorando con lui quasi tutti gli aspetti della macchina dello spettacolo. Perché c’è la dimensione del musicista, quella della critica musicale (che racchiude la scena più bella, sulla distruzione degli idoli), quella dell’editoria e anche del talent show. Sharad è fissato con una sua filosofia, con una certa idealizzazione della musica e della sua vita: ma nel suo ossessivo culto dell’idolo – la guru musicale Maai, di cui custodisce nastri introvabili – Sharad non si rende conto che nel frattempo la vita gli sta scivolando addosso, e si ritrova presto adulto a guardare i suoi vecchi amici fare successo dopo essere passati dall’altra parte della barricata.

The Disciple è quindi una vera sorpresa, è un film che si riesce ad apprezzare davvero solo sui titoli di coda. Fa arrabbiare, ti fa spazientire, ma proprio perchè è esso stesso la rappresentazione di tutto quello che non vorremmo mai sentirci dire, o che vorremmo vedere su noi stessi. E proprio in questo riesce ad essere unico: nel suo parlare, finalmente, della delusione.

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