The Crown (terza stagione): la recensione
Anche con un totale recasting, The Crown rimane una delle produzioni televisive più alte e ambiziose della tv
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Cambiano i volti, la Corona resta. L'idea, così anacronistica, quasi inconcepibile oggi, di sostituire gli attori delle serie tv in corso si adatta invece molto bene ai temi e al linguaggio di The Crown. Non è un caso se la prima immagine della terza stagione della serie sbatte in faccia allo spettatore la palese differenza tra Claire Foy e Olivia Colman. La camera sfida per pochi decisivi secondi il pregiudizio dello spettatore, che sapeva già di trovarsi di fronte ad un totale recasting, ma è ancora scettico. Invece, da un punto di vista simbolico prima che produttivo, si tratta di una scelta funzionale alla forma del racconto. Lo è rispetto ad una storia che conferma la priorità dei corpi istituzionali e del senso di necessità rispetto ai corpi che a quelle istituzioni danno un volto.
La terza stagione di The Crown, nello specifico, racconta un altro decennio del regno di Elisabetta II. Si va dalla metà degli anni '60 alla metà degli anni '70. E nel mezzo c'è un altro pezzo importante di storia contemporanea. La geopolitica e i rapporti con gli Stati Uniti, la tragedia di Aberfan, l'allunaggio, l'economia traballante. Ma ci sono anche le vicende umane dei Windsor, spesso indissolubili dal contesto generale. Quindi l'insoddisfazione che a vario titolo colpisce Filippo, con una crisi di mezza età, Carlo, con il suo primo contatto con Camilla, Margaret, con il suo carattere estroverso e la sua vita priva di equilibrio.
Nel bene o nel male, il recasting generale mette tutti i personaggi sotto una nuova luce, più umana. I volti di Claire Foy e Matt Smith meglio si adattavano all'algida freddezza della coppia reale. Erano più credibili nel loro ruvido distacco dalle faccende terrene, più risoluti quando c'era da agire, probabilmente meno empatici. Olivia Colman dona più calore e una mano più dolce alla regina, Tobias Menzies – soprattutto nei due ottimi episodi a lui dedicati – crea un personaggio più fallibile e fragile. Il solo casting di Helena Bonham Carter, così particolare, sembra richiedere immediatamente per Margaret un carattere molto più estroverso, che non disdegna le volgarità verbali. Vanessa Kirby camminava in perfetto equilibrio tra provocazione sensuale e nobiltà nel portamento. Ma la sorpresa positiva è Josh O'Connor nel ruolo di Carlo, un concentrato di passione, imbarazzo nei gesti, voglia di determinarsi.
La scrittura dello show rimane quella familiare agli spettatori. Peter Morgan intende la scrittura episodica nel senso più alto, con un approccio sconosciuto a qualunque altra serie tv in onda oggi. La maggior parte delle puntate potrebbe essere rimodellata come un film, con la sua dimensione storica, il suo conflitto centrale, i suoi paletti rigidi risolti più o meno nell'arco dell'episodio. Perfino con le tipiche scritte di fine puntata che danno delle informazioni e offrono una chiusura. Fare ciò significa trovare un equilibrio tra enfasi della scrittura e leggerezza dell'intreccio. Non è facile, e questa stagione più delle precedenti cade nell'autocompiacimento o nei facili simbolismi. Un esempio su tutti, nel primo episodio un dialogo sulla doppiezza di significato nei quadri che si applica alla doppiezza degli individui.
Ma, quando riesce a trovare la strada corretta, The Crown si svela per ciò che è: una delle produzioni televisive più alte e ambiziose della tv. Cinematografica in un senso che nessun altro show ha il coraggio o l'ambizione di provare ad essere.