The Crow - Il corvo, la recensione del remake del film del 1994
L'esigenza di modernizzare Il corvo sia alle sensibilità moderne che alla produzione moderna ha creato un mostro
La maledizione della creazione di un universo narrativo! È ciò che, in questi anni e in questo momento storico, gli studios americani pensano essere il segreto per trasformare un film in una proprietà intellettuale che possa dare origine a tanti altri film. Si tratta di raccontare una storia ampliando le sue ramificazioni e facendo capire che si svolge in un mondo da esplorare, con le sue regole, la sua mitologia e le sue gerarchie. Questo è ciò che è accaduto a Il corvo, trasformando di fatto un film che somigliava a una poesia, in cui non tutto ha senso secondo le consuete regole grammaticali ma che creava da solo la sua lingua, in uno che è brutta prosa, uguale a tante altre e abbastanza lontana dagli intenti originari e dall’identità del marchio.
Verso metà film si può avere la sensazione che il passaggio dal dark/gotico anni ‘90 a ciò che oggi più gli somiglia, cioè l’emo/trap dei tatuaggi e del fisico scolpito, abbia svilito la componente funerea e disperata (matenendo però il legame con un'estetica che viene dalla musica), ma tutto questo è niente di fronte alla seconda parte del film, in cui il protagonista prende le misure con i suoi “poteri”, brandisce una spada, uccide molti nemici con ironia e si diverte. Anche noi, si intuisce, dovremmo divertirci con un film che nasce da una storia in cui non c’era niente di divertente, ma tutto, semmai, di commovente. Non è quindi un problema di attualizzazione, con il trucco bianco in faccia sostituito da tatuaggi e una serie di segni sfatti come in un video di una band coreana emo. È un problema di coerenza.