The Conjuring: per ordine del Diavolo, la recensione

Più avanza più The Conjuring 3 svela il fatto di essere il ponte tra l'identità che caratterizza la serie e una sua versione mainstream, buona per tutti, action

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
The Conjuring 3 - Per ordine del diavolo, la recensione

O muori da film originale o fai sequel così a lungo da diventare un film di supereroi.

È la storia di The Conjuring, partito come L'evocazione con grandissima forza e originalità fondendo due figure realmente esistite con una versione tutta sua del cinema di fantasmi e finito in questo terzo film dalle parti del cinema più convenzionale. I Warren nella testa di James Wan, che aveva diretto i primi due film, erano diventati due coniugi acchiappafantasmi, versione da focolare di un concetto avventuroso, rassicuranti e amorevoli come dei genitori vecchio stampo, non spaventati da nulla come degli eroi. Questo slittamento unito alla paura inventiva di Wan avevano creato due dei migliori horror del decennio. Due sequel e tre spin-off dopo il terzo film della serie canonica diventa cinema d’azione.

Michael Chaves, regista di La Llorona (horror che è alla lontana rientra nel più ampio universo della serie), non ha assolutamente il tocco di Wan, non riesce a trovare quella dimensione visiva e quella messa in scena che tenga il film con il piede nelle due staffe cui è abituato, cioè la parte “realistica” tratta dalle vere avventure dei coniugi Warren (per come le raccontano loro) e parte romanzata, preferisce dividere il film in due in modo che nella seconda metà possa accelerare senza limiti, sconfinando in altri generi.

Purtroppo poi la sceneggiatura non è che lo aiuti molto, evitando tutti gli aspetti più complicati e correndo rapida verso l’azione.

Nella serie sono raccontati sempre i veri casi affrontati dai coniugi Warren e The Conjuring 3 è in buona sostanza la drammatizzazione della fantasiosa tesi di difesa dei Warren nel processo ad Arne Cheyenne Johnson che, come dice il sottotitolo italiano, sostenne che era stato il diavolo ad avergli fatto commettere un omicidio e che quindi non fosse colpa sua. È possibile vedere in controluce in tutto il film quel che deve essere realmente accaduto andando solo poco al di là di come viene piegato dalla narrazione dei Warren, per la quale dietro ogni azione c’era non solo la spinta di un demonio e di una possessione avvenuta nel prologo ma proprio una volontà umana di una mente dietro a tutto. Tuttavia questo strano rapporto con la vera storia è troppo spesso tirato via.

Ad esempio, quando i coniugi devono convincere un avvocato della difesa molto scettico dell’esistenza del maligno, il film risolve la dimostrazione con uno stacco di montaggio comico. Chiedono all’avvocato di venire a casa loro per una ragione che non sveleremo, e dopo lo stacco, al processo, l’avvocato ha lo sguardo allucinato da cui capiamo che ora crede. Non sappiamo cosa sia successo e cosa l’abbia convinto, ci fa ridere ma ha aggirato il problema. È una soluzione che andrebbe benissimo in una storia fasulla, anzi sarebbe un alleggerimento auspicabile, ma è ridicolo in un film che nei titoli di testa e soprattutto in quelli di coda si fa grande vanto dell’essere basato su una storia vera.

Tutto precipita definitivamente quando nella seconda parte del film entra il villain, un nemico contro cui battersi, da cercare, seguire, conoscere e poi con cui confrontarsi in uno scontro tra magia bianca e nera. Così facendo The Conjuring: per ordine del Diavolo dichiara il passaggio al mainstream. Nonostante infatti la presenza di demoni e di diversi jumpscare alla fine non è più un horror, ma a furia di sequel e slittamenti ha perso la propria identità diventando un film che vuole somigliare agli altri, cioè vuole allargare il suo pubblico facendo in modo che tutti possano riconoscere qualcosa che conoscono nelle dinamiche action che, ad oggi, pervadono tutti i grandi blockbuster.

Continua a leggere su BadTaste