The Cloverfield Paradox, la recensione

Astronauti nello spazio in cerca di una via di sopravvivenza. The Cloverfield Paradox è il terzo capitolo di una serie che sembra aver preso un'altra direzione

Critico e giornalista cinematografico


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L’aria è più quella di Life o della prima parte di Punto di Non Ritorno che quella degli altri due film nell’universo di Cloverfield, quella di un horror spaziale in cui le persone chiuse in un’astronave lottano contro qualcosa di poco chiaro. Nonostante un momento puramente Alien che include un tavolo, un malessere e molto sangue, è al cinema di paura più che a quello di tensione che si rifà The Cloverfield Paradox. Se il primo film è stata la maniera migliore in cui il cinema abbia elaborato e raccontato l’11 Settembre senza metterlo in scena direttamente (found footage, esclusione della minaccia, concentrazione sul panico e la distruzione) e il secondo era un gustosissimo gioco di tensione e suspense, questa volta è pura fantascienza speculativa, fatta di dimensioni parallele e teorie audaci.

Purtroppo The Cloverfield Paradox suona molto come il film che mette una pezza a posteriori, unendo i primi due (o quantomeno creando una cornice nella quale entrambi possono essere parte del medesimo universo narrativo), chiarendo come mai tutti questi film abbiano la parola Cloverfield nel titolo (ma sappiamo che in realtà originariamente era un titolo di lavorazione dato a caso e poi mantenuto) e infine rilanciando una mitologia per prossimi sfruttamenti. Da ora in poi il franchise Cloverfield racconta una storia non diversa da quella di Stranger Things, ovvero la collisione di due dimensioni che porta all’arrivo di mostri. Chiarendo cosa accade inevitabilmente cancella l’alone di mistero, riduce la speculazione e diminuisce la tensione verso il mistero. Ciò che lo sostituisce non è molto migliore

A giudicare dalla sua sceneggiatura The Cloverfield Paradox voleva essere una bella space story, piena di tentativi di sopravvivere, eventi tra lo scientifico e il fantasioso, esplosioni, momenti in cui tutto pare perduto e accadimenti misteriosissimi. Non sempre Julius Onah ci riesce, non sempre cioè riesce a liberare il massimo potenziale della scrittura, facendo respirare e sfruttando al meglio motivazioni e svolte nei personaggi. Chi cambia idea, come mai lo faccia e soprattutto che valore abbia nelle sue azioni il cambio di idea o la nuova consapevolezza data da una scoperta, in un film di schieramenti, svelamenti e sorprese è determinante. The Cloverfield Paradox, che ogni 10 minuti presenta un tassello in più e una scoperta in più su cosa sia accaduto all’astronave che di colpo non è più in orbita intorno alla Terra e in cui accadono cose stranissime, lascia i suoi personaggi fluttuare in queste scoperte, spiazzati senza stile, preoccupati senza carattere.

A tutta l’azione e il precipitare di eventi non associa anche quella tensione che viene da un gruppo di personaggi dotati di un obiettivo da raggiungere. Certo l’obiettivo c’è, ma la sua importanza e la sua chiarezza non sono mai al centro della storia. In una serie che invece è sempre stata molto diretta (nel primo film dei ragazzi devono scappare da un disastro senza precedenti, nel secondo alcune persone devono scappare da un bunker in cui un aguzzino le tiene prigioniere), questo terzo film che ruota di nuovo intorno alla sopravvivenza in condizioni stupefacenti non riesce ad essere altrettanto diretto ma si perde di continuo. Più interessato alle singole scene e al loro potenziale che alla grande cavalcata, benché per molti tratti riuscito, si condanna da solo all’oblio.

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