The Caine Mutiny Court-Martial, la recensione | Festival di Venezia

William Friedkin affronta da diverse angolazioni i concetti di responsabilità, attendibilità e quello della colpa

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La recensione di The Caine Mutiny Court-Martial, presentato Fuori concorso al Festival di Venezia 2023

È in un certo senso commovente che l’ultimo film di William Friedkin, uno dei sommi maestri del cinema americano, sia un purissimo procedural che riflette sull’idea di giusta causa. È praticamente nel DNA del cinema hollywoodiano, infatti, lo sfoggio dell’arte tutta americana del discorso pubblico, dell’arringa, delle buone parole che convertono coscienze. Quasi come a dire, inconsciamente, che Friedkin è stato e sarà sempre un virtuoso di quel cinema e, parimenti, un regista figlio di quel Paese che tanto ha analizzato nelle sue contraddizioni, sempre alla ricerca di un’idea di limite, di sacrificio.

The Caine Mutiny Court-Martial pesca quindi proprio da quella tradizione del film giuridico (già esplorata da Friedkin, nella sua relazione col potere militare, in Regole d’onore) e, riflettendo sulla legittimità di un episodio di ammutinamento da parte di un ufficiale della Marina americana, con esiti non celatamente conservatori William Friedkin mette in scena - per un ultima volta come in tutto il suo cinema - quel labile confine che divide il bene dal male.

Tratto dall’omonima opera teatrale del 1953 di Herman Wouk, The Caine Mutiny Court-Martial è un film dalle pretese sceniche più che semplici ed evidentemente teatrale, ambientato quasi nella sua interezza in un’aula della tribunale marziale della Marina americana. Questa semplicità si nota subito dalla fotografia (decisamente televisiva, plasticosa) ma Friedkin ci fa andare in fretta oltre il visivo attraverso quella che si rivela dai primi minuti come un’avvincente battaglia di retorica e di oblique strategie condotta dall’avvocato difensore dell’ufficiale (un grande Jason Clarke) e dalla sua controparte dell’accusa (Monica Raymund).

La posta in gioco è altissima e l’occasione pressoché storica, poiché nel caso in cui l’imputato venisse assolto la Corte marziale ammetterebbe che il capitano Queeg (Kiefer Sutherland), in servizio da più di vent’anni, sia stato giustamente ammutinato perché mentalmente instabile (l’unica circostanza possibile in cui il primo ufficiale può deporre il capitano). Ciò implicherebbe, di conseguenza, un’inaccettabile inefficienza strutturale e un grave fallimento dei principi fondamentali della Marina americana.

William Friedkin con The Caine Mutiny Court-Martial affronta da diverse angolazioni i concetti di responsabilità, attendibilità e quello della colpa, esprimendo pienamente nel piccolo di questa vicenda quanto le parole e i discorsi possano plasmare i fatti e distorcere la realtà, con conseguenze che hanno sempre implicazioni etiche ben più grandi. Più grandi dei singoli, più importanti della giustizia individuale.

“È stato un processo strano e tragico”, dirà il giudice della Corte verso la fine del film. Tragico, per Friedkin, nella misura in cui l’individuo sovrasta un’istituzione, e un interesse di parte va a ledere ciò che è determinante per la solidità e la definizione del Paese: l’affermazione di un principio. Ancora Hollywood, ancora l’arte del discorso. Ancora Friedkin.

Siete d’accordo con la nostra recensione di The Caine Mutiny Court-Martial? Scrivetelo nei commenti!

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