The Brutalist, la recensione: Brady Corbet al terzo film centra il capolavoro
La storia di un architetto inventato che viene accolto dall'America fa di The Brutalist uno dei film più significativi e intensi dell'anno
È una storia di capitalismo questa. Sì. Ed è una storia di traumi della Seconda guerra mondiale. La storia di un gruppo di personaggi devastati dalla seconda e accolti dal primo, cioè dagli Stati Uniti, che vivono il sogno americano ma sono infelici, nonostante in tutto questo partecipino alla creazione di qualcosa di meraviglioso con una fatica proporzionata. Questo è Il petroliere, una vita ossessionata da una cosa, segnata fisicamente dal capitalismo, dedita allo spasmo. E questo è Oppenheimer, cioè quel tipo di ritratto in cui il protagonista è un titano che lotta con la sua umanità per realizzare qualcosa di incredibile. Solo che László Tóth (il protagonista) non esiste, è un’invenzione, come non esiste il miliardario Van Buren che lo accoglie, ne riconosce il genio e gli commissiona la progettazione e costruzione di un’opera immensa che quasi lo distruggerà. Serviva di crearlo questo personaggio per dire qualcosa di vero sui traumi della guerra e su quello che l’America, per mano di quelli come Van Buren, faceva a quelli come Toth nel buio delle cave di marmo di Carrara.
Si capisce subito che c’è la ferma intenzione di raccontare questa storia degli anni ’50 con un look che richiama l'iconografia e il design di quegli anni e tuttavia Lol Crawley (già direttore della fotografia di quella follia di Dau) fa dell’uso della luce l’unico elemento moderno (lo si nota in particolar modo nei frequenti controluce), per poi fuggire nel digitale e nelle inquadrature contemporanee per i palazzi di città. Le creazioni di Tóth invece sono inquadrate con un senso del bello così profondo che a tratti uccide. Eppure la loro genesi non ha niente di poetico. Sono uomini che vivono e creano da uomini, cercando un senso alla propria vita nella pratica, e per tutta la prima parte si può anche provare una viva eccitazione per il racconto (seppur drammatico) dell’estasi e della fatica della creazione materiale di qualcosa di grande, costoso e pesante. La creazione artistica è come un elefante da domare che partorisce momenti di estasi.