The Brutalist, la recensione: Brady Corbet al terzo film centra il capolavoro

La storia di un architetto inventato che viene accolto dall'America fa di The Brutalist uno dei film più significativi e intensi dell'anno

Critico e giornalista cinematografico


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È una storia di capitalismo questa. Sì. Ed è una storia di traumi della Seconda guerra mondiale. La storia di un gruppo di personaggi devastati dalla seconda e accolti dal primo, cioè dagli Stati Uniti, che vivono il sogno americano ma sono infelici, nonostante in tutto questo partecipino alla creazione di qualcosa di meraviglioso con una fatica proporzionata. Questo è Il petroliere, una vita ossessionata da una cosa, segnata fisicamente dal capitalismo, dedita allo spasmo. E questo è Oppenheimer, cioè quel tipo di ritratto in cui il protagonista è un titano che lotta con la sua umanità per realizzare qualcosa di incredibile. Solo che László Tóth (il protagonista) non esiste, è un’invenzione, come non esiste il miliardario Van Buren che lo accoglie, ne riconosce il genio e gli commissiona la progettazione e costruzione di un’opera immensa che quasi lo distruggerà. Serviva di crearlo questo personaggio per dire qualcosa di vero sui traumi della guerra e su quello che l’America, per mano di quelli come Van Buren, faceva a quelli come Toth nel buio delle cave di marmo di Carrara.

The Brutalist è il film più compiuto di Brady Corbet, attore mediocre diventato eccezionale cineasta, che fino a ora si è fermato a un passo dal grandissimo film (Vox Lux) o aveva mostrato potenzialità che non era in grado di controllare a dovere (L’infanzia di un capo). Finalmente qui gira una grande storia americana che riesce ad affrontare grandissimi temi senza soccombere, anzi. La forza di The Brutalist sta prima di tutto nella potenza muscolare con la quale impone e gestisce il suo ritmo e il suo tono. Ogni elemento di messa in scena è finalizzato a ritmo e tono, e da queste due componenti deriva tutto il resto. È un film calmo e teso al tempo stesso, come un discorso pronunciato da un grande oratore che non ha bisogno di correre per catturare l'attenzione. Ed è un film che non assembla talenti e grandi elementi di messa in scena (fotografia e scenografia sono da impazzire), ma uno che li fa collaborare così che (lo si vede bene nel prologo) la colonna sonora, come in Rocky, sostenga il racconto e lo spinga avanti, ridefinendo un noto luogo comune del cinema americano come l’arrivo in nave in America con la visione della Statua della Libertà.

The Brutalist, di Brady Corbet

Si capisce subito che c’è la ferma intenzione di raccontare questa storia degli anni ’50 con un look che richiama l'iconografia e il design di quegli anni e tuttavia Lol Crawley (già direttore della fotografia di quella follia di Dau) fa dell’uso della luce l’unico elemento moderno (lo si nota in particolar modo nei frequenti controluce), per poi fuggire nel digitale e nelle inquadrature contemporanee per i palazzi di città. Le creazioni di Tóth invece sono inquadrate con un senso del bello così profondo che a tratti uccide. Eppure la loro genesi non ha niente di poetico. Sono uomini che vivono e creano da uomini, cercando un senso alla propria vita nella pratica, e per tutta la prima parte si può anche provare una viva eccitazione per il racconto (seppur drammatico) dell’estasi e della fatica della creazione materiale di qualcosa di grande, costoso e pesante. La creazione artistica è come un elefante da domare che partorisce momenti di estasi.

Per tutte queste ragion non ci sono dubbi che The Brutalist sia figlio del cinema di Paul Thomas Anderson (ne ha la qualità quasi sognante del suo racconto, e quello stesso modo di seguire l’intreccio di lato, portandolo avanti nello sfondo di scene centrate su altro), ma anche totalmente autonomo. È la famiglia di Il gigante che incontra un alieno, un artista, un uomo che è stato perseguitato e con la sua famiglia cerca una patria che non troverà, venendo risucchiato e consunto dal capitalismo mentre di lui rimane un oggetto, una manifestazione pratica della Seconda guerra mondiale. Solo in questa maniera, alla fine, la rivelazione del senso del grande edificio costruito lungo tutto il film è uno degli atti di ridefinizione di quello che il protagonista aveva dentro più centrati e per questo eccitanti dei nostri anni.

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