The Boys, la recensione dei primi tre episodi

Nelle prime tre puntate The Boys mira più che altro a creare un mondo che è metafora della nostra ossessione per i supereroi ma con un livore fuori dal comune

Critico e giornalista cinematografico


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Il risentimento e l’odio sono i sentimenti da cui partono le serie più interessanti degli ultimi due anni. Parte da un risentimento fortissimo (e non lo molla mai, se lo coccola e lo alimenta) la bellissima Sharp Objects, trabocca di odio per sé e disprezzo per gli altri la superlativa Fleabag e ora The Boys.
È una storia di supereroi che accantona tutto quello che solitamente sorregge le storie di eroi, anche le più ironiche e sfacciate. Non c’è idealismo, non ci sono sentimenti positivi, non c’è nessuna voglia di correttezza, giustizia o anche solo di piacere dell’essere eroe. The Boys è alimentato a risentimento e in questo sentimento negativo cerca di coinvolgere, con umorismo nero, sagacia e una buona dose di mistero, anche lo spettatore.

È la prima scena a impostare tutto anche per quel pubblico che non sapesse niente del fumetto da cui è tratto, che non avesse visto i trailer, non si fosse informata online ma avesse approcciato la serie solo vedendola sulla home di Amazon Prime. Dei criminali compiono un furto da poco davanti a due ragazzi che rischiano di esserne vittime quando arrivano i supereroi, Patriota e Queen Maeve, la seconda ferma il furgone distruggendolo, ne escono i criminali malconci, sanguinanti, il primo li finisce. Non li bloccano, non li arrestano. Li uccidono. E sentiamo l’ansimare, sentiamo le urla, vediamo il sangue e percepiamo la paura. Sono criminali colti in flagrante, armati fino ai denti ma lo stesso c’è qualcosa che non va.
Watchmen (il film) sembra il referente più prossimo ma anche lì gli eroi (più che altro vigilanti) più corrotti erano spregevoli ma non eravamo così coinvolti dalle vittime da odiarli profondamente.

Il risentimento prenderà forma poco dopo con l’incidente che anima tutta la serie: la fidanzata del protagonista muore mentre si stanno baciando sul marciapiede. Dura tutto meno di un secondo, un attimo prima le labbra si avvicinano, un attimo dopo di lei è rimasto solo un mucchio di sangue, ossa e poltiglia (unica parte intera le mani che lui sta stringendo) perché le passa attraverso accidentalmente A-Train, sorta di Flash di quell’universo. La distrugge letteralmente e accortosi della cosa scappa via.
Sembra non essere la prima volta che accade un incidente simile, che un innocente finisce travolto dall’incuria di un supereroe, scopriamo che i “super” hanno dietro di sé una società che ne gestisce l’immagine, che produce dei film su di loro, li promuove e mette a posto ogni problema. Un emissario vuole risarcire la vittima in cambio del silenzio più totale sull’evento. E il risentimento monta aprendo la strada alla vera trama, l’ingresso del protagonista in un gruppo di persone normali (nel senso di senza poteri, non certo sani di mente) che mira a fare fuori i supereroi.

È molto chiaro fin da quella prima scena (che si apre parlando del sequel di un film su uno degli eroi) che siamo nel nostro mondo, The Boys è una metafora della grande ossessione per i supereroi dei nostri anni anche se il fumetto originale è del 2006, quando tutto ciò era solo iniziato. Del resto Patriota è Capitan America + Superman, Queen Maeve è Wonder Woman, Abisso è Aquaman, A-Train come detto è Flash ecc. ecc. E come già in Gli Incredibili 2 l’idea espressa chiaramente è che il punto della nostra ossessione con gli eroi è che la loro presenza ci autorizza a non fare niente senza sentirci in colpa, sognare (o vivere) un mondo di supereroi è la sublimazione della fine dell’attivismo vero, delegare a qualcun altro la soluzione di ogni problema mentre si rimane sul divano a guardarli.
Delegare ad un livello tale che l’obiettivo della Vought-American (la società che li gestisce) è di prendere in appalto la difesa degli Stati Uniti, sostituire l’esercito con i supereroi di sua proprietà.

La premessa di questa serie adattata per lo schermo da Erick Kripke, Evan Goldberg e Seth Rogen, un gruppo di persona senza poteri che hanno come obiettivo far fuori quelli che sono chiaramente presentati come individui potentissimi e pericolosissimi, umorali, non molto sani di mente, megalomani e senza nessun rispetto per la vita, è intrigante e i primi tre episodi della serie lo portano avanti molto bene iniziando con calma (dall’eroe meno potente).
Tuttavia è evidente che il mondo in cui è ambientata la serie sia la cosa più interessante. Lo si capisce anche da come le prime tre puntate mirano inusualmente a costruire quello più che marciare con l’intreccio. Capiamo alcuni punti importanti, veniamo introdotti ai rapporti di forza fondamentali, ma in quasi 3 ore quel che è più chiaro di tutto è il funzionamento della Vought-American, i vari livelli di eroi, le reazioni dell’opinione pubblica, come si schiera il governo e la rete di inimicizie.

C’è inoltre un secondo polo di risentimento, non solo la vittima trasformata in membro della banda violentissima di giustizieri di supereroi, ma anche una giovane supereroina di provincia (in quel mondo circa 200 persone hanno i poteri, e sono tutti eroi a diversi livelli di fama). Arrivata in città per le selezioni dei 7, il gruppo più importante e ricco, viene presa e diventa il nuovo membro. È piena di ideali ma li perde subito. Inizia come una vera eroina da cinecomic ma in meno di due scene viene introdotta al mondo lurido di prevaricazione di quello che le appare subito un luogo di lavoro malsano e maschilista. Lo subirà malissimo iniziando a provare livore. Un livore giusto, avallato dalla serie, quasi positivo per le conseguenze a cui potrebbe portare. L’odio come sentimento indispensabile e corretto.

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