The Book of Boba Fett 1×06 "Dal deserto uno sconosciuto": la recensione

C'era una volta una serie intitolata The Book of Boba Fett poi tramutatasi in The Mandalorian, due anime che non funzionano bene insieme.

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Spoiler Alert
Un tempo questa serie si intitolava The Book of Boba Fett ed era uno spinoff di The Mandalorian dedicato al cacciatore di taglie, una figura così iconica e così problematica da trasporre. Dal quinto episodio ha invece “perso la via” cedendo al lato oscuro, tornando ai vecchi affetti e ai trucchi di successo che hanno caratterizzato gli ultimi anni di Star Wars in TV. Lo fa con grande sollievo di tutti perché, ancora una volta, la presenza di tantissime vecchie conoscenze rende finalmente tutto più interessante. Si trattadi un salvataggio all'ultimo minuto, un po' furbetto seppur accettabile.

Soprattutto perché seguire ancora una volta le gesta di "CGI Luke" e Grogu toglie quell’impressione di storia autoconclusiva che aveva The Mandalorian aggiungendo peso alle scelte del passato. Finalmente siamo arrivati a un punto in cui gli sceneggiatori e i registi che hanno preso in mano queste trame le fanno convergere per avvolgere la nuova trilogia cinematografica e superarla. Non la rinnegano, ma tracciano altri percorsi alla sua destra e alla sua sinistra. La nuova scuola Jedi che Luke sta costruendo è vecchia narrativamente parlando. Però quel buco che intercorre tra Il ritorno dello Jedi e Il risveglio della forza è uno spazio importantissimo per ricostruire idee che possano far proseguire il mito anche oltre la famiglia Skywalker. 

Dave Filoni dirige così con ritmo lento e solenne un epilogo del rapporto tra Din Djarin e “Il bambino” e l’inizio della storia di Grogu come Jedi. O per lo meno lo intuiamo dal cliffhanger finale. Se così non fosse, se non scegliesse la spada, sarebbe una gravissima occasione persa (l'ennesima) di aprire nuovi orizzonti all’interno della mitologia.

Il problema è che The Book of Boba Fett continua a sembrare un’accozzaglia di ottime scene tagliate da opere precedenti e qui messe alla rinfusa. È insopportabile come le due trame non si parlino mai. Scorrono parallelamente come se appartenessero a due serie diverse tenute insieme da un debole pretesto (e forse è proprio così, ma chi lo vorrebbe mai?). Persino stilisticamente l’impressione è che si siano alternati i registi, almeno due, in una puntata sola.

The Book of Boba Fett The Mandalorian

A Mos Pelgo (ora nota come Freetown) la prosa utilizzata è quella di Sergio Leone: campi lunghi, primi piani agli occhi e alle pistole. Il vento secco e polveroso attraversa le città con i colori desaturati che tolgono ogni vitalità al luogo. Tutto ciò che è legato al mandaloriano è messo in scena invece coerentemente con quanto già visto: colori più accesi, cinepresa vicina ai personaggi, grande attenzione alle forme e alla consistenza materica dell’armatura o della pelle dei comprimari. 

Il capitolo 6 va scisso in due: lontano da Tatooine emerge l’aspetto più emotivo. C’è tempo per un po’ di filosofia della forza, un addestramento mai originale che prende da tutto quello che abbiamo già visto per farne un collage. E ci sta, coerentemente con il novello maestro Luke, ancora poco ferrato nella “didattica”, che si appoggia agli insegnamenti del passato. Come sempre, in questa sezione dello sviluppo dei personaggi Star Wars riesce a definire tantissimo sia i poteri che la psicologia e i drammi interiori.

La preparazione alle vie della Forza rappresenta un momento riuscito, meno clamoroso dei combattimenti o dei colpi di scena, ma ugualmente importante. Bravo quindi Dave Filoni che compie il miracolo di rendere credibile un animatronic che ascolta un ibrido tra computer grafica, live action e deepfake (sempre che la tecnica usata fosse quella che vi abbiamo descritto in occasione della sua prima apparizione in TV).

A uscirne vincitore è però decisamente Grogu, che ancora dimostra meno limiti recitativi dello Skywalker ringiovanito. L’effetto “FaceApp” è ancora straniante, soprattutto osservando i rigidissimi capelli o i contorni troppo netti del volto. I limiti nel range di emozioni che può rappresentare lo rendono più robotico di quanto dovrebbe.

Quando invece The Book of Boba Fett si ricorda del protagonista titolare, la magia si perde e subentra la stanchezza derivante dall’impressionante vuoto di idee. Un difetto che si può concedere ad una serie arrivata all’undicesima stagione, non a chi è solo alla prima. Sarà veramente difficile salvare quanto fatto fino ad ora con un finale scoppiettante. Nemici interessanti sono stati introdotti troppo tardi, Cad Bane funziona visivamente fino a che non alza la testa, poi sembra una mosca per nulla minacciosa. La scena di tensione che gli viene concessa è troppo insistita e scontata per tenere i nervi tesi., soprattutto fa il paio con la sparatoria del prologo troppo simile come struttura.

Ancora non si percepisce la posta in gioco; il territorio che devono difendere non si è mai mostrato degno di un tale sforzo. I beni e i tesori come la spezia non hanno quello "scintillio" che li rende interessanti anche agli spettatori. Gli ambienti, i costumi, i dialoghi sono tutti piatti. Sono uniformi e statici in attesa di uno scossone. Quanta energia che c'era invece nel deserto ripeso da George Lucas e che qui manca! Posti sperduti in cerca d'autore.

Non si può certo negare che stiamo assistendo a un progetto sorprendente. Dove però l’aggettivo è sinonimo di spiazzante. Forse Jon Favreau e soci speravano di poterlo realizzare con il pilota automatico, visto quanto in passato erano riusciti a consolidare con successo le proprie idee. Invece il computer di bordo è impazzito e ha preso il comando portando l’ingombrante astronave in mete non consequenziali e piuttosto diverse l’una dall’altra.

Ci si può assolutamente divertire rimbalzando di qua e di là tra una serie e l’altra. Basta solo spegnere un po’ la razionalità; le emozioni, per lo meno nelle ultime due ore viste, arriveranno. Anche se è lecito dubitare che, andando avanti così, l’intera struttura possa reggere a lungo. 

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