The Book of Boba Fett 1x05: la recensione

Una puntata sorprendente e assolutamente spettacolare rialza The Book of Boba Fett dopo molti episodi stanchi grazie a un ritorno eccellente

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Spoiler Alert
Da quanto tempo non ci si sentiva dentro Star Wars? La risposta può variare di persona in persona. Sicuramente Gli Ultimi Jedi è una delle linee di demarcazione principali tra il prima e il dopo. Per i più ottimisti l’ultimo momento potrebbe essere stato quel gran finale di The Mandalorian. Difficile trovare però nei primi quattro episodi di The Book of Boba Fett quell’energia che attraversa tutta l’opera di George Lucas. La serie si è dimostrata stanca sin dal primo minuto, incapace di tenere alta l’attenzione, di costruire dei personaggi che si potessero sviluppare nel tempo. Per la voglia di dire tutto e subito si è bloccata in un estenuante susseguirsi di flash back e piccole azioni inutili nel presente.

Con la puntata di oggi, la quinta di The Book of Boba Fett, o per meglio dire la diciassettesima di The Mandalorian, cambia tutto. Ed è una gioia per gli occhi. Una goduria di effetti speciali e di piccoli gesti emozionanti che fa divampare ancora una volta tutto l’amore per quell’universo. Ne avevamo bisogno.

Sì, perché più che mai ad oggi la definizione di “universo” di Star Wars è calzante, molto più di “personaggi” o “storie”. Bryce Dallas Howard sale in cabina di regia e spara il suo episodio nell’iperspazio. Riesce a farlo senza trucchetti o effetti pirotecnici, ma solo ricordandosi che in questa mitologia gli oggetti contano tanto quanto i personaggi. Una spada laser impugnata male dice più di lunghe digressioni nel passato. In quei pianeti c'è infatti poca metafisica e tanta concretezza: l'industria, il possesso effimero di beni e crediti contro la proprietà a vita - quasi un legame di sangue - di armature e astronavi.

Certo, un “trucchetto di magia” ha dovuto farlo e, par quanto il colpo di scena sia clamoroso, è esplicito sin dal titolo della puntata. Cioè dimenticarsi del cacciatore di taglie vecchio e non più in partita, per chiamare la riserva ormai diventata titolare: Din Djarin. Questo non basterebbe a creare un'ora appassionante se alla regia e alla scrittura non ci fosse una ritrovata ispirazione. Viene da chiedersi quindi che senso abbia avuto costruire il nulla dentro The Book of Boba Fett quando tutti gli autori coinvolti dimostrano con la qualità della messa in scena la voglia di espandere il viaggio di “Mando”. 

Abbiamo assistito ad un autosabotaggio consapevole nelle scorse puntate? Forse sì. Godibile anche da chi non ha seguito nulla fino ad ora, Il ritorno del Mandaloriano è fondamentalmente l’ennesima perdita di tempo rispetto al totale della stagione, ma che bella da vedere! Una puntata collaterale che non ha senso nell’equilibrio totale e che rallenta ulteriormente lo sviluppo della trama. Siamo ancora fermi al nuovo Daimyo di Tatooine che vuole affermare la sua forza contro i sindacati criminali locali. Siamo a questo punto ormai da svariate ore. Però questo episodio spazza via l'odore di stantio e torna finalmente a divertirsi.

È limitante parlare delle grandi narrazioni come un semplice incedere di fatti. I film e le puntate che restano nel tempo sono quelle che riescono a creare uno strato di emozioni su quell'ossatura, a definire i colori e i sapori di cui andremo poi a godere a lungo. Finalmente The Book of Boba Fett riesce a farlo recuperando una sorta di minimalismo dei momenti pur nella grandiosità delle scenografie.

La regia di Bryce Dallas Howard non è mai stata così precisa. Le inquadrature che riesce a trovare rompono i confini della serie e si collegano, per immaginario, al Guerre Stellari più lucasiano che ci sia: la spada oscura “sfoderata” lentamente e le sagome dietro una porta traslucida, caccia Stellari X-Wing che scortano un N-1 di Naboo ricostruito in un garage di Tatooine, attraversate interstellari da un pianeta all’altro in compagnia di curiosi bambini che si girano e osservano gli altri passeggeri. Questo è Star Wars e questo è il modo giusto per tenerlo in vita: partire dagli oggetti e renderli protagonisti.

Da sempre più epica fantasy che opera di fantascienza, come nelle canzoni medievali il cavallo (l’astronave) o la spada (nella roccia) portatrice di benedizioni, sono incastonati nella psicologia dei personaggi. Allora un momento come quello del primo atto in cui le armi vengono forgiate, scomposte e ricomposte, mostra più cambiamenti di quanto potrebbero farlo cento avventure, soprattutto se queste riportano sempre al punto di partenza.

Finalmente The Book of Boba Fett definisce i guerrieri e i cacciatori di taglie dalle loro armi. “Sono un mandaloriano, fanno parte della mia religione”, risponde Din Djarin alla richiesta di depositare tutti gli oggetti che possono ferire altre persone. Lui accetta, e quando si chiude quella scatola contenente la Spada Oscura si inizia a percepire un senso di pericolo che neanche la tenera immagine successiva può fugare. In quel momento l’episodio ci porta lontano da casa, in territori finalmente ostili; non perché dimostra che lì può saltare fuori un mostro da un momento all’altro, ma perché chiunque è una potenziale minaccia. 

Costruire, allenarsi, migliorare, ricostruire ancora. Star Wars è fatto di epoche storiche, dove gli usi cambiano, le aspirazioni di vita mutano sulla base delle manovre cosmiche-politiche. Din Djarin e soci lavorano con il poco che hanno a disposizione. Non si butta via niente. Dalle macerie e dalle lamiere si progettano nuove forme ibride di caccia stellari. Ciò che esiste si modifica e diventa altro. Se questo sembra tanto una dichiarazione di poetica è perché, a tutti gli effetti, lo è.

Presente, passato e futuro vanno mischiati insieme per continuare ad andare avanti all'infinito. Questi tre momenti sono ancora compatibili, sia fisicamente nell’immagine dei circuiti, che narrativamente nelle trilogie. Non tutto è perduto insomma, bisogna solo ripartire dalla carta. Una nuova fase 1: progettare, rimodellare l’esistente, recuperare vecchi personaggi riconoscendo un legame. Lo si fa senza grandi proclami; basta un semplice nodo intorno a un pacchettino misterioso che richiama forme ben note. Poi si può lasciare spazio, al posto del droide nell'astronave, all’imprevisto che riempirà quel sedile.

Che sospiro di sollievo la quinta puntata di questo che, con il gusto per la polemica potremmo chiamare The Book of The Mandalorian. “Tutte quelle chiacchiere sull’impero e sono durati meno di 30 anni, i mandaloriani esistono da 10.000 anni”. Non c’è altro da dire: in pochi secondi di dialogo (di una exposition potenzialmente pesante, eppure mai vissuta come tale) si apre un portone intergalattico verso nuove risposte a domande che non sapevamo di esserci posti, nuovi rapporti di forza, equilibri stravolti.

Ma soprattutto alla fine, con un saluto accennato da un vetro a un altro, nel mezzo del nulla dello spazio, con il volto coperto da una maschera impenetrabile, si ritorna ad emozionarsi veramente.

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