The Book of Boba Fett, 1x01: la recensione

The Book of Boba Fett inizia con le tante rinascite del suo protagonista in un prologo senza troppe parole, ma che non arriva dritto al punto

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Ambientato tra presente e passato, il primo episodio di The Book of Boba Fett, diretto da Robert Rodriguez e scritto da Jon Favreau, alza le aspettative per gli appassionati dell’universo di Star Wars e le abbassa per tutti gli altri. Proprio come The Mandalorian, da cui non si distacca per stile né per qualità realizzativa, la serie usa gran parte del suo tempo per vagare. Ci porta nella galassia lontana lontana per descriverne gli usi, le culture. Mantiene l’aspetto visivo più sporco e polveroso della trilogia classica. Chiede a chi guarda di essere già ben integrato con le mitologie dei pianeti che mostra. L’idea è che il divertimento possa scaturire dagli incontri e dagli scontri che non avrebbero potuto trovare spazio nei film. Il proposito è come sempre di espandere i confini, usare tutti gli oggetti e gli spazi a disposizione per ritornare al cuore della saga.

Pochi dialoghi per un uomo di poche parole, The Book of Boba Fett inizia con un'apprezzabile sintesi visiva, ma non arriva subito al dunque. Mentre si risponde alla domanda su come abbia fatto il cacciatore di taglie a sopravvivere alla fatale bocca del Sarlacc, si assiste a una nuova storia di origini; l’ennesima per il personaggio, che letteralmente risorge dalla terra come una persona nuova. Un passaggio essenziale per dare sin da subito un aspetto da guerriero sopravvissuto, magari cambiato anche dall’esperienza, con cui si può minimamente empatizzare. Cosa che mai, prima d'ora, era stato possibile fare.

A Boba Fett è infatti da sempre tributato un grandissimo affetto, tanto che la Lucasfilm ha pensato a lungo anche a un film spin-off a lui dedicato. La posizione in cui si trovava prima di essere preso in mano da Favreau e soci era però piuttosto scomoda. Troppe poche informazioni su di lui, e una presenza sullo schermo limitata, ne hanno valorizzato l'aspetto più sfuggente. D’altro canto però non è nemmeno un foglio bianco come Din Djarin, ma porta con sé un retaggio da rispettare piuttosto complesso.

Per questo The Book of Boba Fett si trova ad assolvere il duplice compito di imbastire un viaggio che sia appassionante (intuiamo che il tema sarà la sua ascesa a signore del crimine) e sistemarne il passato. E vuole farlo contemporaneamente. In pratica: creare una personalità dentro a un bell’elmo e una bella armatura in grado di vendere giocattoli. Intrecciarlo con il presente narrativo portandolo al centro. Dandogli piena ragion d'essere.

The Book of Boba Fett - Temuera Morrison Ming-Na Wen

Lo si dà per assodato, quando invece non è mai un fatto banale, produttivamente siamo a livelli eccelsi. La qualità dei set design e l’ispirazione che guida i costumi e le creature è sempre altissima, tanto da eguagliare la controparte filmica. Questo la serie lo sa bene, tanto da impostare i suoi primi minuti solo per far godere esteticamente. Nessun dialogo e tante azioni di un uomo che si fa da solo in lunghi minuti che ricordano l’incipit de Il Petroliere di Paul Thomas Anderson: terra, sabbia, sudore, e una scalata dal basso verso l'alto. Boba Fett rinasce continuamente e ne porta i segni sul suo volto e su un corpo mai così fragile. Il suo continuo ritornare alla camera di guarigione sembra proprio il bisogno dello showrunner di riparare il personaggio, sistemare i dettagli e renderlo in grado di reggere sulle proprie spalle il peso di molti episodi.

I primi segnali non sono però incoraggianti. È inspiegabile la decisione di concedere così tanti minuti a Temuera Morrison a volto scoperto. Svogliatissimo e troppo sintetico nella sua recitazione, mostra il fianco non appena arrivano i primi dialoghi, pronunciati tutti con solennità, ma senza alcuna sfumatura. Persino la sofferenza, colonna portante dell’episodio, è simulata in maniera cartoonesca. Come ad esempio quando viene trascinato per chilometri nella sabbia e fa una smorfia come se avesse un leggero fastidio lungo la schiena. Manca la patina cinematografica, la luce negli occhi che fa la grande epica.

Anche la Fennec Shand di Ming-Na Wen è una spalla che sembra venire da quella televisione di serie B, che si concentra su figure stereotipate, stando sempre lontana dai primi piani, ma che si posiziona nel punto ideale per generare un’infinità di intrecci. I migliori comprimari sono quindi le creature nella sabbia, gli edifici, i pianeti. Sono loro che rilanciano sempre la posta in gioco e contribuiscono alla formazione dell’eroe.

Il primo episodio di The Mandalorian usava il finale per agganciare lo spettatore con un dilemma (chi è il bambino? Perché assomiglia a Yoda?) che ha tenuto banco per due stagioni. L’inizio di The Book of Boba Fett sa più di prologo, di puntata zero, piuttosto autoconclusiva e francamente poco invitante rispetto al proseguimento. Manca una domanda, una sorpresa, un cliffhanger che faccia cambiare marcia e correre ad alta velocità.

Resta infatti la sensazione che, oltre l’altissima qualità realizzativa, oltre il palese amore per il personaggio e le ambizioni di coprire un arco di tempo ampissimo, ci sia ancora poco da raccontare. Questo episodio pilota appare quindi come un divertimento riuscito per i fan. Si gode nell’avere risposte a domande antiche e altre di cui, in realtà, non sapevamo di avere bisogno: ad esempio come si sopravvive nel deserto (pur nella goffaggine della scena in cui scavano giusto in superficie per trovare rifornimenti d’acqua). Per tutti gli altri, gli spettatori che passano di lì incuriositi dai grandi effetti speciali e dal marchio Star Wars, c’è ancora ben poco a cui aggrapparsi per voler restare su questo treno.

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