The Bikeriders, la recensione

The Bikeriders racconta il mito e la morte di un'epoca. Si affida ai suoi attori e ad un'azzeccata ironia che non riesce a mantenere

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La recensione di The Bikeriders, il film di Jeff Nichols al cinema dal 19 giugno.

Il fatto che The Bikeriders sia tratto dalle fotografie di Danny Lyon e sia strutturato tutto intorno ad una serie di interviste condotte lungo gli anni alla moglie di uno dei rider (Kathy) è l’idea più sprecata del film. Jeff Nichols racconta in questo modo il mito dei club di motociclisti dalla metà degli anni ’60 fino agli inizi dei ’70. Non c'è però il gioco di punti di vista, la parzialità delle testimonianze, che lo renderebbe più interessante.

The Bikeriders per il resto ruota intorno al fascino per le moto e al loro valore simbolico, ma non riesce quasi mai a renderle seducenti. Solo in una sequenza il mezzo diventa quello che dovrebbe essere in un film di questo tipo: un cavallo meccanico, un’estensione del corpo e della personalità di chi lo pilota. Quando i fari emergono nella notte sulle strade deserte la giovane ragazza-narratrice, entrata per caso nel gruppo e decisamente intimorita, dirà di avere visto realmente quegli uomini solo in quel momento. Solo in strada si può conoscere un biker. È un istante perfetto di sinergia tra la leggenda e lo sguardo dell’epoca. 

Nichols è però più interessato a una ribellione fatta da persone alla ricerca di un sogno più soddisfacente di quello americano. Gente oscena, per i perbenisti, indesiderata ovunque, pure in Vietnam. Sono una comunità così forte da sembrare una piccola nazione in movimento, con le proprie regole e la propria cultura. Il film ha una prima parte (la migliore) dove l’immaginario è quello che conta. Una seconda dove il più serioso mondo esterno fa marcire l’ideale di strada e libertà.

Così la prima ora trova un azzeccato tono autoironico che si perderà man mano. Benny (Austin Butler) sta fermo per quasi 24 ore di fronte a casa di Kathy per sedurla. Alla fine non ha un capello scomposto, solo tante sigarette ai suoi piedi e una in bocca. Si butta nelle risse senza criterio, solo provando a interpretare lo sguardo del capo Johnny. Si mette in sella, fa a botte, beve birra, sfugge dalla polizia per ottenere il massimo di enfasi. Sono personaggi che si sentono dentro un film, Il selvaggio, per la precisione, con Marlon Brando.

Il film da lì in poi percorre lo stesso arco conformista dei suoi personaggi. Man mano che si avvicina alla fine di un’epoca d'oro con il ritorno alla vita ordinaria, anche The Bikeriders finisce la benzina e diventa generico. I dialoghi perdono smalto, iniziano ad emergere importanti cliché: dalla donna-prigione che prova a salvare un uomo, nato per morire “cavalcando” la sua moto, alle lunghe confessioni che sanno di addio, come se chi le pronuncia conoscesse il suo destino.

Resta l’impressione che il potenziale fosse molto maggiore, soprattutto in termini di ore di racconto. Un’opera che avrebbe avuto più respiro in una struttura seriale, con storie veramente incrociate, che per un film di sole due ore. I comprimari sono sacrificati dietro ai due protagonisti. Il gruppo dei Vandals è fatto da rapporti di forza ben equilibrati. Lo stesso fondatore è preoccupatissimo di mantenerli tali. Solo che quando i pesi si spostano, non è ben chiaro cosa potrebbero causare fino a che non viene detto esplicitamente a parole. 

Sono dei limiti pesanti di un film formalmente ben fatto. Retto sulle spalle di un grandissimo Tom Hardy (il suo Johnny sembra imitare Brando nella parte però di Don Vito Corleone). Comer, Austin e l’immancabile Michael Shannon lavorano bene con l'accento e con i corpi. Ricreano la spinta irrefrenabile a tirare un pugno e la facilità con cui chi si sente veramente rider fa pace poco dopo bevendo una birra. Si fosse riusciti a spingere il film un po’ oltre, cercando di più il senso epico del racconto di un mondo tramontato, sarebbe diventato un grande esempio di cinema. 

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