The Beekeeper, la recensione

Il classico Statham-film prende una piega politica e aumenta le ambizioni. The Beekeeper è cinema trumpiano e al tempo stesso ironico

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione del nuovo film di David Ayer con Jason Statham, The Beekeeper, in uscita l'11 gennaio in sala

Il Jason Statham-film è una categoria molto precisa, un sottogenere a sé del film d’azione, in cui un protagonista duro, di poche parole, violento ed esperto di azioni pericolose viene costretto contro la sua volontà a rivolgersi contro qualcuno e da lì parte una carneficina di molti uomini per arrivare alla sua metà/al suo obiettivo. Su questo canovaccio sono stati fatti moltissimi film, quasi tutti di buona fattura e grande precisione nell’azione, perché su questa ripetitività del senso di minaccia dato dalla presenza di Statham si innestano bene la sua presenza e le sue doti d’azione. The Beekeeper è uno degli Statham-film girati meglio (per la presenza di un regista di solito più ambizioso come David Ayer) ma anche uno dei più dozzinali in fase di scrittura, che cerca di rimediare a questa sbrigativa dimissione di qualsiasi plausibilità con una certa ironia di regia apprezzabile (probabilmente anche questa frutto delle capacità di Ayer di lavorare su due livelli) che dà un grandissimo divertimento. Inoltre questo è il primo Statham-film con intenti politici espliciti.

In The Beekeeper Statham è un apicoltore che in realtà è un agente della CIA in pensione, uno molto pericoloso che nessuno conosce, e che viene usato per missioni di altissimo rischio proprio perché non esiste. Qualcuno fa l’errore di truffare telefonicamente l’unica persona che gli stia a cuore, la quale dopo la truffa rimane senza un soldo (gli prendono anche quelli dell’associazione vagamente benefica che curava!) e si suicida. La miccia è innescata. La parte esilarante è che l'apicoltore come un salmone risale la corrente del crimine, arriva ai vertici della società che ha costruito un impero truffando gli anziani e non si ferma, mira sempre più in alto in un paradossale ingrossarsi della questione. Sarebbe tutto stupidissimo (e per molti versi lo è) se non ci fosse Statham a dare una sorta di credibilità paradossale, che è la sua specialità: dare sostanza a quella che altrove sarebbe un’azione parodistica.

Ci sono così tanti buchi nella scrittura che il modello di The Beekeeper non può essere il cinema essenziale di Walter Hill, ma una visione ben più godereccia e consapevole dell’action, una che preferisce fare in modo che un call center sia fatto esplodere da un ordigno collegato alla prossima telefonata (così che lo stesso truffato, ignaro, telefonando lo inneschi) più che preoccuparsi che così facendo, in teoria, l’esplosione può arrivare in ogni momento, anche quando Statham è ancora dentro l’edificio. Preferisce mettergli contro un’altra agente pazza, una di quelle che fanno il lavoro sporco per lo stato ma nessuno conosce, che tuttavia questi lavori li fa arrivando con un pick up e una mitragliatrice da 100 colpi al secondo che distrugge tutto, piuttosto che immaginare che forse non agisce così qualcuno che rimane invisibile. Gli interessa insomma il giustizialismo e gli interessa mettere contro al protagonista degli idioti insufficienti, così che il suo desiderio rivoluzionario appaia sensato e non solo la giustificazione delle istanze trumpiane che invece è.

Perché se di solito queste esplosioni di violenza di ex agenti in pensione hanno una ragione per essere innescate e poi un’altra per proseguire (o perché è stato acceso qualcosa che non si può più spegnere, come in Rambo, o perché nuove informazioni o reazioni portano avanti il conflitto, come in John Wick), in The Beekeeper il massacro non si ferma per una forte spinta anti-statale. L’eroe qui è quello che ha una morale superiore a quella delle massime cariche della nazione, le vede per quello che sono, ed è pronto a tutto per reinstaurare la sua idea di stato americano, più pura e giusta. Anche il personaggio, per come è delineato, in qualsiasi altro film sarebbe trattato come un pericolo, qualcuno impazzito per il lavoro che ha fatto, un prodotto della follia dello stato. Qui invece è animato dall’unica bussola morale riconosciuta come affidabile. Il film non lo compatisce ma lo esalta.

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