The Beautiful Game, la recensione

È un film buonista The Beautiful Game ma così tanto da sconfinare nella presa in giro e nello sfruttamento di temi seri per fini commerciali

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di The Beautiful Game, il film di Netflix sulla Coppa del mondo per senzatetto

Il problema con il cinema di buoni, buonissimi, eccellenti sentimenti, è che nella rincorsa all’esposizione di tutto quello che di rasserenante e rassicurante c’è nelle sue storie, falsifica sempre di più la realtà che racconta. Una certa dose di forzatura esiste sempre, indirizzata là dove interessa al film: i noir enfatizzano il crimine e la doppiezza, l’horror enfatizza l’abiezione morale, il melodramma enfatizza quanto la società osteggi i singoli e via dicendo. Ma quando un film arriva a piegare il suo contesto così tanto come fa The Beautiful Game, fin dal titolo, si rasenta la presa in giro dello spettatore.

Senza essere un musical, cioè senza essere una palese versione colorata e falsa del mondo in cui viviamo, questo film dalla regista di Io prima di te e dallo sceneggiatore di Le due vie del destino, racconta una storia che si svolge all’interno della vera Coppa del mondo di calcio per senzatetto. È una storia dai risvolti positivi che passa per il racconto dei singoli drammi sciolti nelle emozioni più pure, ambientata a Roma senza un giorno di nuvole. Ciò che infastidisce è la maniera in cui The Beautiful Game falsa le condizioni dei senzatetto (tutti molto belli, con fisici scolpiti), in cui falsa i problemi della droga (non poi così gravi) e in cui mostra alcolisti che sono perfettamente funzionali e anche andare contro ogni regola non è un problema né prevede nessuna reale sanzione.

L’impianto è quello della commedia inglese in cui un gruppo di persone si pone un obiettivo molto superiore alle proprie forze. La squadra dei senzatetto britannici è in teoria una squadra di incapaci (così ci viene mostrata all’inizio) in cui tuttavia c’è un ex promessa della Premier League. Incomprensibilmente però poi nel torneo (organizzato da Valeria Golino al minimo dell'impegno) i giocatori sono tutti abbastanza bravi e in grado di competere a un ottimo livello anche senza l’unico vero giocatore. Il loro allenatore è un ex talent scout (Bill Nighy, l’unico che ci crede a un livello tale da accettare di recitare sul serio) che non è chiaro perché faccia questo da anni, e nessuno ha interesse a spiegare perché squadre femminili gareggino con squadre maschili o cosa si vinca.

L’obiettivo è raccontare le storie e il passato di questi senzatetto (un cartello alla fine ci avverte che sono storie reali) ed è nobile, ma sotto è difficile non vedere la tendenza ad acquietare, a non preoccupare, a coccolare un pubblico che può stare certo che in questo film dal tema sociale non troverà nulla che gli impedisca di prendere sonno a visione finita (ma perché no? Anche durante). Pure i doppi sensi di cui dovrebbero essere preda per ragioni di commedia sono così leggeri che non sono per forza comprensibili (in italiano come in lingua originale) e l’attrazione tra due personaggi è gestita come fossero bambini di una scuola elementare. Anche un conflitto etnico che è fonte di guerre civili, cosa esplicitata dal film stesso, si risolve senza una vera ragione, solo in nome dello sport e del volersi comunque tutti bene. Non è un mondo idealizzato, è lo sfruttamento dei problemi veri in una loro versione banalizzata, per il bieco fine di accattivarsi spettatori ingenui.

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