The Beatles: Get Back, la recensione

Tre puntate per 8 ore totali in compagnia dei Beatles per scrutare, capire e indagare come funzionino la creatività e le relazioni umane

Critico e giornalista cinematografico


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The Beatles: Get Back, la recensione

Circa 8 ore in cui vediamo 4 musicisti che parlano e cercano di fare un disco sono accettabili solo se i 4 in questione sono i Beatles nel 1969, l’anno dell’ultimo disco registrato insieme e se quelle sessioni porteranno all’ultima esibizione pubblica del gruppo, sul tetto dello studio di registrazione nel centro di Londra.
Dalle 56 ore di materiale girato in 20 giorni per la realizzazione di un film documentario che non si è poi mai fatto Peter Jackson crea questo The Beatles: Get Back, serie documentario in 3 puntate che potendo godere del vantaggio del tempo affonda le mani nelle relazioni tra i 4 e nel processo creativo.

Cinematograficamente è un approccio molto interessante. Da una parte il protagonista di tutto è il materiale, cioè le vere conversazioni, e il regista che quel materiale lo organizza oggi cerca di inserire se stesso il meno possibile per non inquinare intenzioni, sentimenti e convinzioni dell’epoca; dall’altra è inevitabile che nel processo di selezione di cosa tenere e cosa no, qualche scelta personale venga fatta e che quel che vediamo sia comunque la versione di Peter Jackson. L’intenzione palese è di metterci 8 ore insieme ai Beatles, farci passare del tempo con loro senza lesinare in momenti morti e noiosi, cioè quello che costituisce lo stare insieme, senza necessariamente fornire informazioni importanti in ogni istante. E come spesso avviene quelli sono i momenti in cui capiamo meglio dinamiche e personalità del gruppo, da come si annoiano e da quello che fanno per passare il tempo.

the beatles get back tetto

La mano di Peter Jackson invece la vediamo quando cerca di darci modo di partecipare a tutte le conversazioni, fornendo il contesto, spiegando i riferimenti che vengono fatti nei discorsi, o dando informazioni su come mai una certa persona sia oggetto di discussione o perché lo sia una certa notizia o ancora un certo argomento. Jackson ci aggiorna continuamente sul punto a cui era arrivato il gruppo e a cui erano i singoli. Cioè ai ferri corti.
C’è un grande ultimo concerto da organizzare e le idee si susseguono per tutti quei 20 giorni di lavorazione all’album e all’esibizione. Le proposte sono le più insensate e folli ma noi sappiamo già come e dove finiranno. Ci sono le idee per un nuovo manager (dopo la morte di Epstein), c’è la fascinazione di John Lennon per i Rolling Stones e il loro programma televisivo (Rolling Stones Flying Circus) che lui ha appena finito di registrare e che non sa che in realtà andrà malissimo. E c’è la fascinazione di George Harrison per Eric Clapton.

Ma ancora c’è la creatività estremamente ordinaria e banale che raramente è di gruppo. Mentre Paul McCartney ancora crea lì in studio, con George Harrison accanto, abbozza Get Back e prova ad immaginare Let It Be, John Lennon arriva con un nastro registrato a casa in cui suona da solo con chitarra e voce tutta Across The Universe, fatta e finita con già il testo definitivo. Basta solo aggiungere gli altri strumenti.
Solo ogni tanto Lennon/McCartney si alzano la palla a vicenda, si mettono uno di fronte all’altro e fanno scontrare idee musicali.

Questo di Peter Jackson è un vero e proprio lavoro di archeologia. Cioè scovare, ripulire e rimettere insieme un reperto così che chiunque possa estrarre da esso informazioni, che possa ammirarlo o possa studiarlo. Tutto ciò che queste 8 ore possono dirci (sguardi, momenti, toni di voce, tensione ecc ecc) non viene infatti da Jackson, non viene dalla mano o dal montaggio di un autore, che come già detto ha fatto il lavoro meno invasivo possibile e quello più accurato per documentare nel senso più stretto e letterale del termine.

the beatles get back studio

Dall’altra parte ci siamo noi che tramite un filmato cerchiamo di comprendere la verità, scrutiamo quel che accadde tramite le inquadrature (inevitabilmente parziali) e il montaggio dei piani di ascolto per capire il mistero delle relazioni umane. Già lo sappiamo come andrà a finire questa storia: i 4 amici non ricuciranno e il gruppo finirà, tuttavia non finiamo di indagare i meccanismi di questa rottura alla ricerca di qualche risposta in più. Cosa faceva Yoko Ono? Quanto ne erano infastiditi gli altri? Era così un dittatore Paul McCartney? Quanto erano vere le risate e quanto no? Perché era così passivo-aggressivo George Harrison?
Forse una conversazione catturata da un microfono nascosto tra McCartney e Lennon mentre parlano proprio dei problemi di stabilità del gruppo mette una pietra su ogni speculazione.

Ma non è solo quello il mistero che questo documentario spinge ad indagare tramite l’audiovisivo: come funzionava quella creatività esplosiva? Dov'era il trucco o il segreto? Da dove venivano le idee? Di chi erano i meriti? Lo sappiamo che è un esercizio futile perché il risultato non lo avremo (anzi come detto appare di una banalità sconcertante) ma è decisivo compiere questo lavoro di indagine nel montaggio e nelle inquadrature perché è proprio cercando che si scoprono e comprendono molte altre cose. The Beatles: Get Back è il raro documentario musicale che non solo dice molto sul proprio soggetto ma che cambia le domande che ci facciamo sulla creatività, sul crescere insieme diventare diversi e sul tenere insieme personalità diverse per un fine comune.

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