The Beatles: Eight Days a Week - The Touring Years, la recensione

Con l'idea fortissima di raccontare solo la carriera live dei Beatles, Eight Days a Week - The Touring Years, è più corretto che interessante

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La storia dei Beatles vista per immagini è un viaggio tutto suo, paradossalmente autonomo dalla musica.

Questo è il pregio maggiore di The Beatles: Eight Days a Week - The Touring Years: voler affrontare attraverso la storia delle performance live dei Beatles anche quella della loro immagine e di come questa possa essere scollata dalla musica. Purtroppo però è anche l’unico vero pregio di un documentario ricco (di immagini, di contributi, di inediti e di testimonianze) ma povero di ragionamento, che pare capace di notare gli elementi più interessanti ma non è mai desideroso di approfondirli.

Partendo dal presupposto che chiunque non abbia troppa confidenza con la band o anche semplicemente non abbia visto qualcuno dei molti documentari fatti su di loro (uno degli ultimi, in ordine di tempo, ad affrontarne solo un aspetto ma con un piglio fenomenale è George Harrison: Living in the Material World di Martin Scorsese) troverà pane per i propri denti. È però anche evidente che a più di 50 anni dal primo disco di una delle band più importanti di tutta la storia della musica pop e rock, ora che la maggior parte delle persone che hanno vissuto quegli anni ha superato i 60, probabilmente il lavoro che fa questo documentario è troppo poco e avremmo bisogno di altro.

Perché se Ron Howard si sofferma a dovere sul ruolo di Brian Epstein (il loro manager) e sottolinea quanto fargli indossare abiti tutti uguali sia stato un elemento determinante per identificare cosa fossero i quattro almeno fino alla seconda fase della vita del gruppo, quella in cui ognuno si vestiva a modo proprio ed inseguiva i propri interessi, poi non spiega cosa comportasse tutto ciò, da dove venisse e che ragioni avesse. Se mostra il radicale cambio di atteggiamento del mondo nei loro confronti dopo il 1965 non cerca mai di capirne le ragioni, dipinge un’opinione pubblica anti-beatles (cosa non esattamente vera) e non approfondisce le possibili ragioni o implicazioni.
Rimanendo sempre in superficie insomma questo documentario, corretto e spesso godurioso, non diventa mai un’operazione di vero ragionamento storico su quel che è stato per l’intrattenimento dal vivo l’arrivo dei Beatles.

Continua a leggere su BadTaste