The Bear (stagione 2): la recensione

L’idea, e insieme il risultato, è proprio quello di portare The Bear ristorante, luogo fisico, ad essere in modo sempre più astratto e complesso un concetto di famiglia, il manifestarsi fisico di un senso di appartenenza

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La recensione della stagione 2 di The Bear, disponibile su Disney+ dal 16 agosto

Li avevamo lasciati tra salvifiche lattine di salsa al pomodoro, e li ritroviamo ora nel cantiere polveroso e spaventosamente vuoto dell’ex The Original Beef of Chicagoland. Quel luogo non sarà più quello che era prima così come non lo sono e non la saranno i personaggi della seconda stagione di The Bear, la serie che dà il nome al nuovo ristorante dello chef Carmy (Jeremy Allen White) e di Sydney (Ayo Edebiri). Un luogo, un nome, un concetto. The Bear con questa seconda stagione sembra riuscire nell’impossibile, ovvero migliorare un mondo narrativo che già nella prima stagione era sorprendente per il suo livello di dettaglio e articolato storytelling del mondo della ristorazione e della sua ciurma piratesca. L’idea, e insieme il risultato, è proprio quello di portare The Bear ristorante, luogo fisico, ad essere in modo sempre più astratto e complesso un concetto di famiglia, il manifestarsi fisico di un senso di appartenenza (a Chicago città, di cui l’orso è il simbolo: “aggressivo ma gentile”) e di una vocazione a un talento/ realizzazione specifica per ogni personaggio, i quali in quelle mura rinnovate e piene di storia familiare difficile da lasciar andare - o anche solo cambiare, che è ancora più doloroso - troveranno nuovi appassionanti spazi narrativi ed emotivi.

Non a caso, in questa stagione il tempo filmico seriale si espande: non più una miniserie limited, ma un serial vero e proprio (con cliffhanger tra puntata e puntata) di dieci puntate, con tanto di “puntata speciale” a metà narrazione. Un’idea narrativa classica ma vincente, visto il successo della prima stagione, e insieme produttivamente centrata: fare di The Bear un prodotto di quality television potenzialmente infinito e sempre più esplorabile nei suoi personaggi/luoghi, senza tuttavia snaturarne mai il concept sopracitato e il respiro così unico (per regia, ritmo, qualità estrema di scrittura) di quella prima stagione.

Scritto e diretto dallo showrunner Christopher Storer, The Bear nella sua seconda stagione abbassa il ritmo vorace della prima per spostare l’attenzione sullo studio dei singoli personaggi: il risultato è appassionante, poiché questo nuovo capitolo soddisfa esattamente quella voglia di vicinanza ed empatia ai personaggi che invece fino a questo momento avevamo osservato molto nella superficie (soprattutto il protagonista, Carmy) ma di cui si era intuita la profondità potenziale. La seconda stagione di The Bear scava nella psicologia, delinea più esattamente la complessità dei singoli e inoltre li mette in relazione tra loro in modi inediti, ponendo le basi per un ecosistema narrativo potenzialmente infinito ma di cui viene subito voglia di perdersi. In tutto questo la cucina diventa anch’essa un concetto più adattevole, slegandosi dal luogo in sé e diventando un pretesto per riflettere su ciò che tiene unite queste persone. Nonostante il loro diffuso cinismo e le loro differenze.

The Bear “in the making”

La dimostrazione che The Bear non sia semplicemente una serie sulla cucina o sulla ristorazione ma molto di più lo conferma il fatto che la seconda stagione si svolge tutta prima dell’apertura del ristorante, a cucina chiusa. La linea orizzontale della serie riguarda infatti le difficoltà e le scelte che i personaggi dovranno compiere per arrivare ad aprire finalmente il The Bear: tra prove antincendio, muri da abbattere (fisici e mentali) e - sì, qui c’è la cucina - l’ideazione di un chaos menu, la seconda stagione di The Bear prende personaggi vecchi, ne raduna di nuovi e li mette letteralmente sotto pressione di fronte allo scoccare del tempo prima dell’apertura. Dove sta quindi il cuore della serie? In un’idea sottile, quella di convivialità, di cucina come condivisione di momenti di vita, non solo atto di bene verso il prossimo ma soprattutto condivisione intorno a un pasto di momenti spesso brutti, sempre difficili. E così un cannolo al pistacchio diventa l’ispirazione profonda per un piatto non per il sapore in sé ma perché viene da un ricordo, qualcosa di personale e forse traumatico. Ecco dove sta ora, più che mai, la cucina di The Bear: non tra quattro mura ma nel modo che i personaggi hanno di viverla. Nel modo specifico che solo in inglese ha il verbo to care: prendersi cura, ma anche preoccuparsi di. Ritenere qualcosa importante.

Personaggi di fronte al loro massimo potenziale

La seconda stagione di The Bear alza quindi l’asticella della complessità psicologica e lo fa mettendo tutti i personaggi di fronte alla possibilità di raggiungere il loro massimo potenziale. Vivendo una situazione di cambio ed evoluzione del luogo sono spinti infatti, ognuno a modo suo, a cercare un senso ulteriore al loro mestiere e/o alle loro vite. Sydney scaverà nel suo passato per capire il suo futuro, Carmy oltrepasserà la sua comfort zone, ma oltre a Marcus e Tina sarà decisamente lo scontroso Richie ad avere l’arco narrativo più clamoroso e impensabile (forse esagerando un filo a livello di coerenza, e questa è l'unica nota negativa della serie).

Con alcuni nuovi personaggi ad arricchire la scena - senza rubarla, il nucleo rimane quello - la seconda stagione conferma la capacità estrema di questa serie di saper raccontare i rapporti umani nel loro non detto, sempre all’insegna del realismo e alla ricerca dell’emozione più vera possibile.

Il mondo filmico di The Bear

Ciò che rende The Bear così riconoscibile e avvolgente, nella prima come nella seconda stagione, è quindi non solo la qualità della scrittura ma il lavoro di regia e montaggio di Storer e i suoi collaboratori (Joanna Calo e Ramy Youssef). Gli ormai rodati dialoghi veloci e le litigate a voci sovrapposte (di cui si ha un climax nella meravigliosa sesta puntata) sono infatti esaltate da una regia che indaga con insistenza il particolare - uno sguardo, una scritta, un oggetto - per raccontare il generale, alternando stasi a momenti sincopati. Proprio come nella vita vera, tutto scorre veloce ma certi momenti dilatano la percezione di tutto. In tutto questo è cruciale il lavoro degli attori ma Jeremy Allen White ad Ayo Edebiri in particolare (insieme ad alcuni cameo clamorosi…) trainano con la loro intensità tutta la ciurma, tanto che senza di loro la serie sarebbe forse impensabile. 

Si comincia inoltre a vedere più largamente Chicago, ma la si esplora sempre come luogo dell’anima dei personaggi, non per viste spettacolari o iconiche ma nella sua dimensione urbana e suburbana, di vita quotidiana. Tra canzoni dei R.E.M. e dei Nine Inch Nails, la ricerca è a tutti gli effetti introspettiva: la seconda stagione di The Bear conferma ciò che ce l’ha fatta amare, regalandoci, se possibile, ancora di più.

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