The Bear, la recensione della prima stagione
The Bear è una serie incredibile perché riesce a trovare una sua originalità all'interno dell'inflazionato mondo della cucina, che qui è invece solo lo spunto per raccontare un'intero ecosistema sociale e singoli drammi che prescindono da qualsiasi preparazione.
La recensione di The Bear, disponibile su Disney+ dal 5 ottobre
Costruito dallo showrunner Christopher Storer come una miniserie da otto puntate di circa mezz’ora ciascuna, The Bear trova il suo tirante narrativo proprio in quello che non si vede: l’antefatto. Quale sia stato il percorso di ascesa di Carmy e perché si trovi invece ora a The Beef (quindi il declino è già in atto) rinunciando a tanto è la domanda che tira avanti la storia con una brillantezza di scrittura mozzafiato: asciutta, sempre attenta a misurare i pesi di ogni piccola rivelazione e a bilanciare i drammi dei vari personaggi e i loro archi narrativi disseminandoli via via per le diverse puntate. Proprio con la calma di chi, sapendo che in cucina ci vuole tantissima tecnica e altrettanta pazienza, riserva ad ogni ingrediente (qui narrativo) il giusto tempo per essere inserito senza rovinare l’armonia dell’intera pietanza.
Dentro una cucina dove il cibo è solo un pretesto
Seppure The Bear sia ambientato totalmente dento ad un locale, o meglio all’interno della sua cucina (praticamente non vediamo mai i clienti, né le loro reazioni ai piatti) e sia scandito dai tempi di preparazione dei servizi, la serie non parla di cibo ma di relazioni umane. In questo stupefacente dramma relazionale condito qua e là da momenti di commedia - dati dall’umorismo cinico e dalla spavalderia dei personaggi - ci sono sì diversi piatti che ricorrono nelle puntate o che delle puntate si fanno elementi narrativi necessari: eppure Christopher Storer usa il cibo o come specchio delle aspirazioni dei personaggi (come Marcus, lo chef che si occupa dei dolci, che si fissa a voler fare la ciambella perfetta perché aspira ad elevarsi) o come indizi nascosti necessari al compimento della trama.
Il tutto con un montaggio ritmato scandito da musica rock alternativa (Wilco, Pearl Jam, Radiohead…) che trova la sua bellissima armonia nell’essere un continuo scontrarsi di corpi e fisicità (bisogna urlare “angolo!” quando si passa dietro a qualcuno) e di personalità eclettiche. Insomma l'impressione di essere dentro The Beef è quasi epidermica, prende tutti i sensi. E noi, come i personaggi, vorremmo averne sempre di più.
Una ciurma alla deriva
L’arena di The Bear è composta da personaggi con diversi gradi di conflitto. Da quelli che fungono da puro sfondo e fanno colore (come il grosso lavapiatti e l’aggiustatutto) con diversi gradi di intensità si arriva a quelli principali, che ovviamente prendono più spazio. Oltre al protagonista Carmy hanno infatti un grande peso il personaggio di Richie (Ebon Moss-Bachrach), detto “cugino”, un nostalgico dei vecchi tempi che dietro un atteggiamento spaccone nasconde molto altro, e la giovane neo-assunta Sydney (Ayo Edebiri), una giovane chef determinata e piena di idee che spesso si fa prendere troppo la mano. I loro conflitti vengono però diluiti nel tempo (di ognuno scopriamo qualche pezzettino ad ogni puntata), mantenendo sempre alta l’attenzione e la curiosità nei loro confronti. Tutte le performance, a partire da quella di Allen White, hanno la naturalezza che li rende più persone reali più che personaggi: che sia con dei tic, dei movimenti o dei modi di dire, tutti quanti hanno una tridimensionalità invidiabile, soprattutto Ebon Moss-Bachrach, che dal conflitto estremo del suo personaggio riesce a trarre il massimo dell'espressività.
Tutti gli chef di The Beef sembrano usciti dal libro autobiografico dello chef Anthony Bourdain, che in Kitchen Confidential descrive la realtà delle cucine americane (dalle bettole a quelle stellate, senza differenze) come un covo di reietti che nella vita di cucina trovano un masochistico piacere, un’assuefazione che funziona come una vera e propria droga adrenalinica. In The Bear sarà proprio l’opposizione tra due sistemi di lavoro, ovvero il vecchio “metodo” e una brigata francese, a sigillare quel desiderio di trovare equilibri impensabili tra caos e ordine con acrobazie narrative e tematiche strabilianti.
The Bear è quindi una serie incredibile perché non solo racconta benissimo i suoi personaggi, crea conflitti interessanti e mantiene un ritmo elevatissimo e coinvolgente che non cala mai in nessuna delle puntate: ma perché riesce a trovare una sua originalità all'interno di un mondo che nella televisione (soprattutto quella factual) sembrava essere già stato consumato in tutti i modi. Il mondo della cucina, che qui è solo uno spunto (ma comunque viene parecchia fame a vederlo...) per raccontare un'ecosistema sociale e singoli drammi che prescindono da qualsiasi preparazione. Una storia di rivalsa, di accettazione, di incontro di anime perse che in un comune spazio trovano un posto da chiamare casa.
Sweet home, Chicago
L’ultimo vero personaggio di The Bear è quindi la città stessa, Chicago: una metropoli di cui non vediamo nulla ma a cui i personaggi sono fortemente legati (l’orso è infatti un simbolo della città), e che nel suo progressivo processo di gentrificazione prova anch’essa a trovare una sua momentanea stabilità. Andando verso il futuro, ma senza dimenticare il suo passato.
La città diventa così la sintesi perfetta e magnifica dell'intera serie, il simbolo di un percorso di transizione e cambiamento che da quella piccola tavola calda aspira ad osservare il suo microcosmo rendendolo semplicemente emblematico e travolgente. Impossibile non affezionarvisi.
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