The Beanie Bubble, la recensione

The Beanie Bubble ha sia un grande pregio che un grande difetto: mostra molto bene certi aspetti della subalternità lavorativa femminile ma non esprime un vero parere

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La recensione di The Beanie Bubble, su Apple TV+ dal 28 luglio

Non si tratta di un brand movie alla Barbie, né di un racconto celebrativo del capitalismo americano. The Beanie Bubble è la storia (vera, romanzata) di come il fondatore dell’impero dei peluche Ty Warner abbia sfruttato in modo egomaniaco le capacità di tre donne della sua vita. Diretto da Kristin Gore e Damian Kulash, The Beanie Bubble ha tuttavia sia un grande pregio che un grande difetto: da una parte mostra molto bene certi aspetti della subalternità lavorativa femminile ma, al contempo, non esprime un vero parere su tale argomento, lasciando un alone di vaghezza argomentativa di cui non si sa bene che farsene.

Il film ha una struttura narrativa interessante e piuttosto ritmata: si parte con un flashforward (una scena cruciale dove tutti i fili dei personaggi si incrociano) ma si torna subito al 1984, l’inizio della carriera imprenditoriale di Ty Warner (Zach Galifianakis), mentre parallelamente vediamo gli eventi successivi del 1993, momento di apice commerciale della Ty Inc. Sembra confuso ma in realtà non lo è, e proprio questa struttura permette a The Beanie Bubble di creare sorprese e mantenere la curiosità sul personaggio di Ty, un uomo dolce e amorevole che pian piano si rivela essere molto più sfaccettato di quanto non sembri.

Per quanto il film effettivamente passi in rassegna la storia della compagnia di Ty Warner, The Beanie Bubble usa il personaggio di Ty per raccontare invece tre donne e come queste si siano relazionate con il carattere istrionico e le manie di grandeur dell’imprenditore. Trattasi di Robbie (Elizabeth Banks), co-fondatrice e prima partner di Ty, Maya (Geraldine Viswanathan), la giovanissima assistente che da receptionist diventa una figura chiave nell’azienda, e Sheila (Sarah Snook), ultima compagna di Ty. Questi tre personaggi raccontano in tre modi diversi ma chiari (Maya e Robbie in realtà hanno archi narrativi piuttosto simili) dinamiche relazionali complesse quali la mancanza di riconoscimento sul posto di lavoro, l’illusione di avere del reale potere decisionale, la coercizione e, dal punto di vista sentimentale (nella figura di Sheila), una più generica presa di consapevolezza dei limiti e dei difetti di un’altra persona.

The Beanie Bubble racconta bene i singoli personaggi, sa renderli - per quanto al limite dell’abbozzato - credibili e lo fa soprattutto in funzione della loro posizione sociale/lavorativa, ma mai davvero del loro mondo interiore. Ecco, forse proprio così si potrebbe definire a grandi linee il mood di The Beanie Bubble: un film che racconta benissimo la superficie, sa mostrarla in modo interessante, ma che poi quando si tratta di venire a delle conclusioni serie si lancia fuori dalla finestra, terrorizzato dalle responsabilità. Questo è il capitalismo, e questo è quanto: lo dice esplicitamente il film allo spettatore, ma anche lo spettatore potrebbe dirlo del film.

Siete d’accordo con la nostra recensione di The Beanie Bubble? Scrivetelo nei commenti!

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