The Apprentice, la recensione | Cannes 77
La storia del giovane Donald Trump raccontata dal suo punto di vista (ma solo fino a un certo punto) è la parte migliore di The Apprentice
La recensione di The Apprentice, il film di Ali Abbasi con Sebastian Stan e Jeremy Strong sulla scalata di Donald Trump presentato a Cannes
Lo schema del film hollywoodiano della perdita dell’innocenza è applicato a Trump, come se quello che faceva non fosse già di suo deprecabile. The Apprentice finge di non considerarlo ma non lo omette mai. Questo è un antieroe con il quale stiamo perché è il personaggio in difficoltà, ma la sua morale è già abbastanza dubbia all’inizio. Vuole diventare un grande imprenditore ma ha ancora un’etica, prova ancora sentimenti. Alla fine invece sarà totalmente Darth Vader. Peccato quindi che nella seconda metà, quando arriva il successo e ci sarà l’inevitabile decadimento morale ed etico (ancora di più!) che gli aliena gli affetti, tutto si sposti sul lato affettivo, spostando il punto di vista e smettendo di stare con lui. A quel punto diventa a tutti gli effetti il cattivo della storia (come se prima non lo fosse già). Arriva una forma esplicita e chiara di giudizio di cui probabilmente non c’era bisogno, anzi sarebbe stato bello fino alla fine sentire la sua campana. Sempre più folle.
Trump e il sistema d’affari con cui si fa strada sono la stessa cosa. Parte come un uomo comune e un capitalista comune e finisce a diventare lo spettro consumato dal capitalismo esasperato, svuotato di ogni altra forma di empatia o umanità per fare posto alla determinazione a falsificare tutto, costruire una sua realtà da propagandare continuamente, fino a che non diventa una verità. E quando dopo un’operazione chirurgica (per estrarre il grasso e nascondere la perdita di capelli) anche il suo corpo diventa una creazione artefatta, falso e a uso e consumo del mito della vittoria, allora si capisce che la similitudine con Darth Vader non è un’esagerazione critica.