Calibro 9, la recensione | TFF38

Il sequel di Milano Calibro 9 è un poliziesco nè d'epoca nè moderno che non si concentra sull'azione e sfocia ben presto nei difetti del cinema italiano

Critico e giornalista cinematografico


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Non c’è solo il titolo ad unire Calibro 9 a Milano Calibro 9, il film di Toni D’Angelo è il sequel diretto di quello di Fernando Di Leo, un pezzo di granito del noir italiano tratto da Scerbanenco, girato con un’asciuttezza pazzesca e recitato benissimo da Gastone Moschin con la grande idea di farlo lavorare in sottrazione in contrasto a tutto il resto cast sopra le righe, a partire da Mario Adorf.

Sono passati 40 anni e il figlio di Ugo Piazza è un avvocato che si sporca le mani volentieri e ha legami con una hacker che ha rubato una partita di soldi da un banca. Questi però appartenevano alla mala, a cui non interessa niente dell’hacker e va dritta da Piazza. La polizia non solo non aiuta ma, come in Milano Calibro 9, stringe Piazza tra due fuochi. Chiudono la carrellata di paralleli (oltre a molte citazioni visive e la doppia presenza di Barbara Bouchet, sia in immagini di repertorio che dal vivo) la presenza di una donna straniera (Ksenia Rappoport) e Rocco Musco, il personaggio interpretato allora da Mario Adorf che ora viene affidato a Michele Placido, appena uscito di prigione per l’omicidio che chiudeva il film di Di Leo.

Il tentativo di Calibro 9, sembra di capire, è un po’ di ricalcare alcuni stilemi (oltre alla struttura della trama) del film originale e un po’ di cercare di dare anche un colpo al poliziesco moderno, ma nel tentativo sembra perdersi a metà strada e cascare, come già faceva il precedente poliziesco di Toni D’Angelo, Falchi, nelle trappole più note del cinema italiano. La prima di queste è il casting. Marco Bocci come protagonista di un noir in continuità con quello guidato da Gastone Moschin è una scelta che si rivela infelice. Bocci non sembra mai avere la faccia dura, la vita vissuta e la capacità di affrontare la disperazione con rigore, né quella di sostituire tutte queste caratteristiche con quelle più morbide che la trama gli chiede.

Se guardato come noir o poliziesco moderno Calibro 9 non ha la precisione richiesta, cioè non c’è quella minuzia nel descrivere figure, attività, metodi e tecniche, non c’è insomma il desiderio di approfondire come i criminali facciano il loro lavoro e guardarli da vicino e anche il commissario di Alessio Boni suona come una divagazione poco utile, poco decisa e molto ariosa. Invece se lo si guarda come omaggio al cinema italiano di genere degli anni ‘70 (che preciso non era per niente ma semmai tutto tecnica e stile, tono giusto e secchezza) questo film non ha la capacità di andare dritto al punto. Gli manca la concentrazione sull’intreccio e sull’azione finendo per prediligere il dialogo e l’introspezione. Solo che l’originale era era recitato benissimo e così centrava il senso della vita dura criminale e cosa dica del nostro mondo. Calibro 9, a partire dall’azione spesso al ralenti, è calcato e calligrafico.

In accordo con questa tendenza anche le sequenze di azione (principalmente inseguimenti a piedi o in macchina) sembrano interessare poco al film. Ce ne sono, ma non hanno personalità, sono più esecuzioni corrette di standard tecnici, scene portate a casa correttamente che non hanno però nessuna qualità, nessun rapporto con lo stile del film e nessuna dinamica. Anche la musica è sovrapposta, non pensata e montata in armonia.
Come anche infine la lunga coda, dai tempi più dilatati del resto del film, l’opposto dell’originale che invece finiva in modo molto secco e brutale (ma ci sarà la citazione della frase del cappello dal levare).

Insomma, non c’è una vera concentrazione sull’azione, a Calibro 9 interessano di più i confronti a parole tra attori e la sensibilità che i personaggi esprimono parlando.
Non a caso come già Falchi più la storia e la trama avanzano più il film sembra perdere connotati polizieschi, fino ad un finale in cui (letteralmente) si finisce a parlare in cucina di sentimenti e della propria vita familiare. Modalità espressive, scene e luoghi intimi più vicini al cinema d’autore italiano classico, che qui, nemmeno a dirlo, stonano moltissimo.

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