TFF36 - Ride, la recensione

Raccolto attorno all'attesa di un funerale, Ride è un grande esercizio sul tema dell'inadeguatezza che corre dietro tanti stimoli perdendo spesso di vista le sue doti migliori

Critico e giornalista cinematografico


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Un uomo è morto sul lavoro, in fabbrica, la donna con cui viveva e da cui ha avuto un figlio è rimasta sola e la seguiamo nelle 24 ore antecedenti al funerale. Sono le ore delle processioni di amici e parenti, le condoglianze e il grottesco che si materializza durante la tragedia, le ore in cui lei sente che dovrebbe piangere e prova un po’ di senso di colpa nel non riuscirci. Non è devastata come tutti sembrano pensare che dovrebbe essere o come tutti intorno a lei effettivamente sono, anzi ride. Dall’altra parte il padre del defunto e i suoi amici elaborano a modo loro, più vicino alle lotte operaie che non ci sono più e alle recriminazioni contro il contesto in cui è morto.

Ride è un film di inadeguatezza e questa è la sua caratteristica migliore, il voler raccontare la terribile sensazione del sentirsi fuori posto, incapace, marginale. La protagonista è sballottata da un mondo che sembra più adeguato di lei al protocollo del lutto e si sente incapace di provare dolore come si conviene.
Ma nel primo film diretto da Valerio Mastandrea c’è anche molto cinema degli anni in cui ha iniziato a fare l’attore e ci sono molti registi che lo hanno diretto. C’è quindi molto di Nanni Moretti e della sua epica dell’inadeguatezza (anche la ricerca di immagini, musica, gesti e prassi che mettano in scena la difficoltà nel sopportare il dolore). C’è il mondo di Claudio Caligari, la marginalità quasi teatrale delle zone popolari, la sincerità e onestà verso le persone rappresentate che diventa espressionismo di dialetto (per almeno metà del cast Mastandrea rifiuta una recitazione pulita e convenzionale).

E poi c’è il cinema italiano degli anni ‘90 e 2000, fatto di grandi metafore dolci e amare e di “alieni” in contesti che non gli appartengono. La protagonista vive infatti a Nettuno ma è di Rimini, in quel mondo molto romanesco (o almeno laziale) è evidentemente diversa già dai tratti somatici e dalla compostezza.

Quella dell’alieno è una soluzione a cui spesso il cinema italiano ricorre per raccontare un contesto e un paesaggio (non è tanto la sua diversità che ammiriamo ma l’omogeneità del mondo che abita), che qui è immersa in una dimensione da cinema di inizio anni ‘80 dell’ultimo Citti o per l’appunto di Caligari, solo meno radicale e soprattutto contaminato dal dolceamaro che per molti versi è la cifra che Mastandrea (attore) si porta dietro e nella quale trionfa come pochi altri. Tutto questo grande mix di stili, influenze e inclinazioni personali non funziona sempre, non funziona benissimo e anche quando riesce a mettere in scena quel profondo smarrimento che così bene leggiamo negli occhi di Mastandrea quando recita, se ne innamora, lo ripete, lo reitera, ci si sofferma e ci macera. Il film purtroppo è solo quello e finisce troppo spesso a cercare i silenzi sul mare, non trovando molto.

Invece spesso l’impressione è che l’idea migliore di tutto Ride, quella che lo anima con più vitalità e che gli dona vero senso, sia il campionario di modi diversi di non essere adeguati al lutto, molti ridicoli, alcuni assurdi, altri semplicemente disarmati, che si srotola nell’appartamento della protagonista e quindi davanti ai nostri occhi. La varietà, la qualità e l’inventiva dei molti modi di essere impreparati davanti alla morte che Mastandrea e il co-sceneggiatore Enrico Audenino inventano diventa subito sinonimo dell’impreparazione di fronte alle questioni più spinose, il senso profondo di sentirsi fuori posto esemplificato dal suo apice. Lì c’è un film molto interessante e personale che purtroppo Ride non vuole essere.

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