TFF36 - Pretender, la recensione

Il problema di Pretender è di essere compiaciuto da risultare completamente insincero e fasullo

Critico e giornalista cinematografico


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Quando James Franco sceglie di introdurre i personaggi del suo diciassettesimo lungometraggio come degli appassionati di cinema d’autore europeo, in un fumoso cinema americano mentre guardano La Donna È Donna di Jean-Luc Godard suona disonesto. E suona così perché ostenta questa passione, perché gliela fa dichiarare e perché se ne compiace, perché usa il gusto dei personaggi come un biglietto d’accesso all’elite. In maniera simile ma opposta Tarantino introduceva il protagonista di Una Vita al Massimo, solo che pur con un po’ di compiacimento non gli faceva guardare qualcosa su cui c’è accordo ma film di kung fu (all’epoca di certo non legittimanti) e comunque non usava questa caratteristica per farlo apparire come uno dei “migliori” ma anzi come un reietto.

Qui siamo invece di fronte ad americani di fine anni ‘70 che definiscono se stessi in base al proprio consumo culturale di cinema d’autore europeo. Giusto il tempo di digerire questa presentazione e i caratteri compiaciuti dei personaggi, lo sfigato, la donna fatale e l’amico sessualmente attivissimo, giusto il tempo di metabolizzare il triangolo d’amore attraverso l’aspirazione artistica che ricalca la gioia d’appartenere all’elite culturale (uno fotografo, una attrice, uno aspirante regista) che in un salto temporale troviamo uno dei protagonisti di nuovo in un cinema stavolta vestito come Marlon Brando in Ultimo Tango a Parigi che all’uscita incontra una donna vestita come Maria Schneider nel medesimo film e come in esso vivono un amplesso fugace in un vicolo. La cosa stona particolarmente perché quel personaggio era stato un po’ incapace con le donne fino a quel punto.

Quel che conta però è la cultura del cinema d’autore come inside joke e basta, non funzionale a niente. A questo punto è evidente che non siamo nemmeno più di fronte ad una maniera per definire i personaggi ma ad un biglietto per lo stesso James Franco nel club dei “veri appassionati di cinema”.

In questo lungometraggio da studente di cinema, filmato con una patina opaca e sfocata intorno ai bordi del quadro, quasi di sogno, in cui una donna passa tra un amico e un amante e un amante che diventa un amico e viceversa, come un Jules E Jim di un’epoca che non riesce a sostenerlo, con uno scavo maggiore nelle inquietudini di ognuno e un twist finale allucinante, tutto è ispirato al mito di un’epoca del cinema defunta già a fine anni ‘70 e della formazione nell’arte come una grande avventura personale in rapporti impossibili.

Tra cortometraggi, lunghi, attrici e produttori salterà fuori un soggetto proposto da lei a lui, nato all’interno del triangolo amoroso, ed è bruttissimo anche quello.
Così quando verso la fine, dopo qualche scoperta e qualche svolta di trama, si capisce che quella storia che lei suggeriva a lui è proprio la storia del film che stiamo guardando, si cade nel più profondo sconforto mentre intanto James Franco pare essere entusiasta di un film che si propone fin dal suo attacco come un’indiscutibile opera d’arte fatta a tavolino.

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