TFF36 - Pretender, la recensione
Il problema di Pretender è di essere compiaciuto da risultare completamente insincero e fasullo
Qui siamo invece di fronte ad americani di fine anni ‘70 che definiscono se stessi in base al proprio consumo culturale di cinema d’autore europeo. Giusto il tempo di digerire questa presentazione e i caratteri compiaciuti dei personaggi, lo sfigato, la donna fatale e l’amico sessualmente attivissimo, giusto il tempo di metabolizzare il triangolo d’amore attraverso l’aspirazione artistica che ricalca la gioia d’appartenere all’elite culturale (uno fotografo, una attrice, uno aspirante regista) che in un salto temporale troviamo uno dei protagonisti di nuovo in un cinema stavolta vestito come Marlon Brando in Ultimo Tango a Parigi che all’uscita incontra una donna vestita come Maria Schneider nel medesimo film e come in esso vivono un amplesso fugace in un vicolo. La cosa stona particolarmente perché quel personaggio era stato un po’ incapace con le donne fino a quel punto.
In questo lungometraggio da studente di cinema, filmato con una patina opaca e sfocata intorno ai bordi del quadro, quasi di sogno, in cui una donna passa tra un amico e un amante e un amante che diventa un amico e viceversa, come un Jules E Jim di un’epoca che non riesce a sostenerlo, con uno scavo maggiore nelle inquietudini di ognuno e un twist finale allucinante, tutto è ispirato al mito di un’epoca del cinema defunta già a fine anni ‘70 e della formazione nell’arte come una grande avventura personale in rapporti impossibili.
Così quando verso la fine, dopo qualche scoperta e qualche svolta di trama, si capisce che quella storia che lei suggeriva a lui è proprio la storia del film che stiamo guardando, si cade nel più profondo sconforto mentre intanto James Franco pare essere entusiasta di un film che si propone fin dal suo attacco come un’indiscutibile opera d’arte fatta a tavolino.