TFF36 - L'Ospite, la recensione
Attraverso le peripezie di divano di amici in divano di amici L'Ospite racconta un'epopea del quotidiano tramite un paesaggio umano
Dopo una litigata che mette in crisi il suo rapporto Guido lascia la casa che condivide con Chiara, si sono presi un periodo di riflessione. Andrà a dormire ospite da amici e dai genitori, un po’ sul divano di uno, poi su quello di un altro. In attesa che qualcosa cambi. E intanto è testimone delle vicende di ognuno. Di fatto così Guido passeggia per il paesaggio umano delle sue relazioni, non influisce ma attraversa le storie e il privato di amici e genitori. Ha una sua trama, suoi problemi (anche al lavoro) e un obiettivo che guidano il film (tornerà con Chiara? Lei lo sta davvero lasciando?) ma di fatto il film è lo sfondo. Seguendo Guido seguiamo anche il paesaggio umano che lo circonda, non rappresentativo di niente ma incredibilmente umano.
Come in Short Skin Chiarini cerca molto il naturalismo, specie nei dialoghi e nella recitazione, riuscendo quasi sempre a trovarlo in modi originali. Non è perfetto, anzi, ma alla lunga il modo in cui ci si parla e ci si comporta nei suoi film ha una personalità chiara, è coerente e suona autentico. Questo è importante perché il risultato del film sarà un’epopea umana di incredibile ordinarietà. Tuttavia la sorpresa che coglie lo spettatore verso la fine è quanto questo naturalismo dia vita ad un racconto toccante e appassionante, perché invece che ricalcare i luoghi comuni del suo genere (la commedia) batte un percorso tutto suo che ci suona sempre imprevedibile. Chiarini non segue il manuale di come si faccia un film italiano ma con quegli stessi protagonisti (gli italiani) crea senza regole.
Ci sarà chi si lascia, chi sta male, chi passa una giornataccia e chi non fa che mettersi sempre più nei guai. Chi è da compatire e chi da condannare.
Guido, come fosse un Michele Apicella di Bianca che ha sostituito l’innaturale e tranquilla calma omicida con l’ansia, vorrebbe che il suo mondo di affetti non crollasse e invece è testimone dell’ordinario sfaldamento e della conseguente ricomposizione dei rapporti.
E la cosa davvero più incredibile del film (tra i cui sceneggiatori compare anche Roan Johnson e un po' si sente nell'umorismo) è come Chiarini sia in grado di trasformare il tocco delicato che applica in uno strumento per raccontare le passioni forti, fortissime e contraddittorie, come se si manifestassero con quiete invece che con il più comune stordimento passionale cui i film ricorrono. Gli basta un mezzo sorriso, alle volte una parola.
Del resto è quella la caratteristica dei grandi narratori minimalisti, avere la capacità di far pesare ogni singolo gesto, ogni centimetro di pelle esposta, ogni silenzio. Pazzesco.