TFF36 - Blaze, la recensione

Il terzo film da regista di Ethan Hawke ricalca la mitologia dell'arte come forma di autodistruzione e non racconta bene Blaze

Critico e giornalista cinematografico


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Come si può onestamente guardare un film come Blaze, anche solo con magnanimità, in un mondo del cinema post-A proposito di Davis? Il film dei Coen si muoveva intorno alle medesime idee di questo, anche se era ambientato all’alba degli anni ‘60, mentre questo è ambientato negli anni ‘80, aveva a che vedere con un genere di musica bianca americana molto tradizionale, legata all’onestà e alla sincerità, e cercava di usare la musica live e le canzoni in parallelo con il mondo delle immagini.

Blaze nel raccontare il suo cantante (Blaze Foley per l’appunto) fa lo stesso. Non c’è il nichilismo dei Coen ma una parabola più convenzionale di ricerca di equilibrio, autodistruzione e onestà musicale, come se quel genere e quella vita fossero un tatuaggio indelebile, una scelta dalla quale non si torna indietro. E dire anche che la bontà del lavoro musicale è garantita da Charlie Sexton (attore ma anche curatore di tutti brani) e quella storica dalla base (il libro scritto da Sybil Rosen, la donna che è stata accanto a Blaze), ma il tentativo di rappresentare vite, sentimenti e valori che hanno animato quella figura è fallimentare.

Ethan Hawke mette in fila la storia con qualche intreccio temporale, a partire da un’intervista radio in cui si dice subito che Blaze Foley è morto. Il resto suona come un’elegia funebre in musica, un tributo ad un uomo ruvido e spigoloso in cui i difetti lentamente diventano pregi, in cui il fatto di essere un essere umano con problemi diventa il segreto di una musica onesta.
Basterebbe solamente la maniera in cui Ethan Hawke protrae il film a condannarlo, il fatto cioè che per tutta la seconda parte continui a reiterare gli stessi concetti in scene diverse, non cercando di portare avanti un intreccio o un’evoluzione ma rimarcando gli stessi punti. Ma più in profondità il vero fallimento di Blaze sta nel fatto che ad Ethan Hawke interessi palesemente l’autodistruzione legata al personaggio e al genere ma non riesca a metterla in relazione a nulla.

La china discendente che sembra inarrestabile, la tendenza a castrarsi, martoriarsi e flagellarsi di Blaze sembra essere tutto quello che vediamo eppure non ha origini, non ha esiti e non ha cause. Anche nei momenti migliori della sua vita Blaze tende a distruggersi e non solo non ne capiamo il perché ma non ne comprendiamo nemmeno l’etica. Nonostante allo stesso Charlie Sexton sia affidata la spiegazione (a parole) di come tutto questo sia correlato alla musica (una mitologia molto presente nell’immaginario hollywoodiano quella del grande artista innamorato della propria distruzione, in conflitto con il successo e l’affermazione), le parole rimangono tali e quel che vediamo è una rovina con cui non possiamo empatizzare perché non solo non è chiara ad un livello logico (dettaglio non indispensabile) ma nemmeno a livello sentimentalmente. Là dove in A proposito di Davis lo era in entrambi i sensi per quanto il film si muovesse in universo in cui è inutile cercare un senso agli eventi della vita!

Essere così interessati a un aspetto in particolare e non riuscire a usarlo per il film, a portarlo allo spettatore o a farne una carta vincente è imperdonabile prima ancora che fastidioso.

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